«Come la giri e la volti, Antonia è sempre triste.»
Me lo diceva mia madre, buonanima, perché mi intristisco facilmente anche se cerco di non darlo a vedere. È possibile che in qualche caso si noti proprio leggermente, perché quando sono triste gli angoli della bocca mi cascano, il labbro inferiore inizia a vibrare appena e il dorso del naso si arriccia nel tentativo di arginare le lacrime, però non piango mai in pubblico, né menziono il mio stato d’animo: è il mio imperativo. Nessuna tristezza deve farmi sfigurare e questo perché mi hanno insegnato a non dare fastidio alle persone intorno: a nessuno piace una persona dalla tristezza facile, soprattutto quella inconsolabile come la mia. Alla mia famiglia in particolare la tristezza dà proprio il nervoso e succede anche a distanza di anni, come quando ricordano la strage delle formiche, la più ridicola ai loro occhi. Da piccolo mio fratello schiacciò con una pedata un’intera fila di formiche che raccoglievano briciole sotto il tavolo del balcone su cui avevamo cenato. Trovai quel gesto così ingiusto che non riuscii a trattenere un pianto contenuto – già allora mi era proibito esagerare – che scatenò l’ilarità della famiglia.
«Sono solo formiche, ce ne sono altre migliaia nel giardino di sotto» disse mia madre, ma invece di spiegarle che quelle pestate da mio fratello erano formiche insostituibili e che la famiglia a cui appartenevano si sarebbe accorta della loro assenza, abbassai lo sguardo, un ciuffo di capelli sfuggì al ferretto e mi ricadde tragico sul viso.
«Eccola, è ritornata la tristezza pure per le formiche! Antonia per piacere non cominciare che sono stanca e ci sono ancora i piatti da lavare.»
Per non darle altri dispiaceri coltivai la tristezza per le formiche più tardi, da sola nella mia stanza, e solo dopo aver aiutato a sparecchiare.
Se ci penso adesso, la perdita di quelle formiche mi fa ancora effetto, ma dura meno rispetto ad allora perché c’è così tanto altro che fiacca il mio umore che posso ritenere quel ricordo quasi elaborato.
Adesso mi intristisco per l’aggressività delle persone estranee che mi fa sentire inadeguata, per il cielo che si adombra quando aspetto una giornata di sole, per la mia famiglia poco loquace da quando mamma non c’è più. Mi intristisce un gelato che si scioglie e non sarà mai più quello di prima, mi incupiscono gli anziani che camminano con lentezza senza un aiuto, ma anche i cani nei canili e le cancellate che li dividono da un prato. Insomma, ho una tristezza ad ampio spettro. Ovviamente non posso nemmeno ascoltare le notizie al telegiornale; mi informo con moderazione, ma la tristezza che arriva se esagero e leggo troppe opinioni altrui è talmente violenta che non riesco a dormire per giorni, e pure se capita un breve momento di riposo, mi risveglio con la nausea che mi rovina la giornata.
Non sono fatta per la vita e lo so perché le vedo le altre persone, le incontro a lavoro, per strada, e loro non provano lo stesso mio istinto di buttarsi per terra per la disperazione di tutte le cose che non vanno. Se potessi mi nasconderei nell’armadio di casa ad aspettare tempi migliori, ma non lo faccio perché intanto devo lavorare e sostenermi, e poi perché so che sentirei, per tutto il tempo dell’attesa, la voce di mia madre che mi sfotte.
«Stai buttando la tua vita appresso a queste fisime.»
La sento ogni giorno anche se non c’è più da tanto, è la sua eredità, lo sprone per andare avanti, guadagnare qualcosa e mantenermi ora che sono sola in casa, e nei periodi di buona è sempre la sua voce a spingermi a uscire e andare a trovare gli amici, persino partecipare a qualche evento in città. Faccio tutto con la massima cura del dialogo, mi piace essere accogliente, ho imparato persino ad abbracciare, così che diventi più semplice contenere la tristezza che mi viene per la fine delle cose.
«A nessuno piacciono le persone tristi», ripete ancora la vigorosa voce materna che abita la mia testa, e con accuratezza cancello l’emozione proibita dai miei rapporti. Ma quando saluto tutti, il paravento di affetto sincero si richiude e ritorno alla cara vecchia routine di pensieri in cui sto comoda e triste, perché più di tutto io soffro il ritorno a casa la sera. Mi intristisce il distacco dal mondo stufo della giornata, dall’aria di ritirata collettiva che riporta tutte le anime a casa, me compresa. Mi incammino mesta verso la periferia in cui abito, col passo sostenuto verso l’autobus quando è particolarmente tardi, e se mi capita di sentire gli argini della tristezza cedere prima che io sia arrivata a casa, prendo il mano il cellulare e scrivo a chi mi conosce con discrezione e nonchalance.
Scrivo a Francesca, la mia ex collega che ora è diventata avvocato.
Che bella serata, grazie! Sono stata proprio contenta di rivederti.
A Martina che scrive di cinema.
Ho visto il film che mi avevi consigliato ieri, ma lo sai che non mi ha entusiasmata? Poi domani ti chiamo per spiegarti perché.
A mio fratello che non si è fatto sentire per tutta la giornata.
Ehi che fai? Io sto tornando a casa, hai sentito che voleva papà? Mi sembra stia cercando dei documenti nella casa vecchia. Fammi sapere.
A Massimo che ho conosciuto online su Instagram.
Che bella questa foto che hai postato oggi, ma dove eravate?
Non tutti mi rispondono subito, soprattutto mio fratello che non bada mai al cellulare, però non è importante, anche solo l’idea di avere qualcuno a cui scrivere mi aiuta.
Quando arrivo a casa comincia la fase più critica e mi tocca pianificare ogni sorta di intrattenimento nell’attesa che il sonno cali su di me. Il rischio del cambio l’umore è più alto a casa perché mentre tutti si addormentano io ho ancora voglia di raccontare fatti, di ragionare sulle cose o di elencare quello che mi è sempre piaciuto ma che non ho mai condiviso, fino a quando non mi si fiacca lo spirito e mi si chiudono le palpebre, serene e sfinite. Solo così la tristezza tace. Per quanto mi impegni durante il giorno nella speranza che pure uno solo dei miei ritorni a casa si faccia più dolce, all’ora della sera tutto si appesta di tristezza e disperazione leggera, quella che mi fa piangere poco poco, zitta zitta, che manco il gatto Brioche mi sente, figuriamoci. Nessuno mi culla verso il sonno, non c’è anima che mi prenda per mano e mi dica che tutto andrà bene, non sarai triste perché ci sono qui io e parliamo, mi dici i fatti e poi tu ascolti i miei per distrarti, e ritorno anche domani e dopodomani se hai bisogno.
«Antonia contieniti per cortesia, non è il caso di farne una tragedia. Ci sono cose peggiori al mondo dell’essere sola la sera.»
È vero, tecnicamente non sono sola perché c’è la voce di mia madre nella testa e Brioche da qualche parte nella casa, ma più di tutto negli ultimi tempi ho notato un lieve miglioramento da quando in una sera di marzo ho conosciuto Grazia durante la presentazione di un libro. Non è che non mi intristisco più, ma Grazia mi ha dato un conforto nuovo, anche se breve.
Seconda parte
Ci siamo viste di persona una sola volta, la ricordo a malapena fisicamente. So per certo che aveva un caschetto disordinato di capelli grigi mossi e un mento appuntito che sembrava si incurvasse sul naso quando chinava la testa sul telefono. Ricordo anche un paio di occhiali da vista con la montatura blu, una tracolla di cuoio che mi era finita sulle gambe quando si era seduta vicino a me, e un cappotto rosso, o forse fucsia, questo dettaglio l’ho perduto col tempo.
«Posso sedermi qui?» mi ha chiesto Grazia quella sera.
«Certo» ho risposto spostando la mia giacca, e poi ho ripreso a parlare con la mia amica Barbara che avrebbe seguito la presentazione dell’ultimo romanzo di Salvo Braccini, il giallista, qualche fila più avanti.
Ricordo che Grazia aveva digitato a lungo sul cellulare, gli occhiali in punta di naso e il libro di Braccini posato sulle gambe strette che scivolava inesorabile verso il pavimento. Cadde un paio di volte, la seconda provai anche a prenderlo con un riflesso molto scadente dei miei, piegandole in malo modo un angolo della copertina.
«Mi deve scusare, volevo solo aiutare» ero mortificata.
«Non si preoccupi. Ecco, guardi, adesso lo stendo per bene e torna come nuovo», e mentre parlava lisciava l’angolo di carta che non ne voleva sapere di stare giù.
«Se l’ha comprato adesso lo sostituiamo con una di quelle copie nuove».
«Ma no, lasci stare. Fra poco inizia la presentazione, non voglio perdere il posto.»
« Vuole la mia copia? Non l’ho ancora letto» dissi indicando la borsa.
«Stia tranquilla non è successo niente.»
Grazia sorrise e riprese a maneggiare il cellulare da distanza ravvicinata, io sentii la tristezza incombere, ma anche la voce di mia madre.
«Guarda come ha ridotto il libro di questa povera signora. Ma non potevi stare ferma?»
Mi sembrò che anche Grazia l’avesse sentita perché si voltò verso di me con gli occhi stretti e il cellulare sempre vicino al volto, invece mi chiese: «Mi potrebbe aiutare con il telefono?».
«Certo, mi dica.»
Potevo rimediare al danno della copertina.
«Non riesco mai a capire se lo metto davvero in modalità silenziosa, potrebbe farmi una telefonata così controlliamo?»
Ero stupita dalla richiesta, ma avrei fatto qualsiasi cosa per di redimermi ai suoi occhi. Sfilai il mio telefono dalla borsa, le lasciai comporre il numero e feci partire la chiamata. Il telefono di Grazia vibrò con lo schermo illuminato, la suoneria era stata silenziata.
«La ringrazio, è stata molto gentile.»
«Si figuri» risposi trionfante per la mia redenzione.
Mia madre aveva smesso di parlare.
Quella sera io e Grazia non ci dicemmo altro mentre Salvo Braccini si esibiva nel consueto show per le lettrici e i lettori presenti. La mia coscienza si sentì in pace e la tristezza si presentò solo una volta a letto, quando la voce di mia madre era già troppo stanca per intervenire.
Sono stata io a scrivere un messaggio a Grazia dieci giorni dopo, ma si trattò di un caso perché ero a casa con la febbre e avevo ritrovato il suo numero nell’elenco delle ultime chiamate effettuate. Pensai, sbagliando, che fosse uno dei tanti numeri del mio capo che non avevo memorizzato.
Buonasera Giorgio, ti scrivo per avvisarti che domani non ci sono, ho ceduto il turno a Felice perché sto uno straccio. Se però hai bisogno di me puoi scrivermi via mail. Scusami e buona serata. Antonia
Mi svegliò il suono del messaggio un’ora dopo essermi appisolata sul divano.
Gentile Antonia, ho ricevuto il suo messaggio, ma purtroppo non sono la persona a cui scrive, ha sbagliato numero. Mi faceva piacere avvisarla così da non creare problemi. Le auguro di sentirsi presto meglio. Grazia
Ero confusa e fiaccata dalla febbre.
Mi scusi tanto per il disturbo Grazia, ero convinta fosse il numero di telefono del mio capo. È stata gentile ad avermi avvisata, non so come faccia ad avere il suo numero, era nelle chiamate effettuate. Grazie ancora e buona serata.
Premetti invio, riaprii l’elenco e recuperai la data della telefonata. Il 24 febbraio, la presentazione di Braccini! Era la signora seduta accanto a me. Le scrissi subito un altro messaggio.
Mi perdoni di nuovo Grazia, volevo solo dirle che ho capito perché avevo nel cellulare il suo numero: ci siamo sedute vicine alla presentazione di Salvo Braccini alla Libreria Centrale! Mi aveva chiesto di farle uno squillo per verificare che il suo telefono fosse in modalità silenziosa. Ancora grazie per avermi avvisata.
Grazia non rispose per il resto della serata, io persi la cognizione del tempo, maledissi la mia vita solitaria e quell’infingardo di Brioche che mi aveva rubato l’idea e si era nascosto nell’armadio sin dalla mattina. Riscaldai della pasta al forno che avevo conservato nel congelatore. E dopo quindici minuti di forno a 220 gradi, mi ritrovai a mangiare l’esterno di pasta carbonizzata con un cuore di altra pasta, polpette e ghiaccio che non aveva fatto in tempo a scongelarsi. Rimasi tutta la notte sul divano perché il letto era troppo lontano, accesi la TV per avere compagnia e avvolsi la testa nella coperta coi cuori bianchi. Sentii il peso della solitudine, delle assenze altrui e delle mie mancanze. La voce di mia madre ne approfittò.
«Sei destinata a rimanere sola con quella faccia triste che ti ritrovi».
«Hai ragione mamma» e forzai un sorriso con il naso che colava e la pelle del viso calda di febbre.
Grazia mi rispose la mattina dopo.
Buongiorno Antonia. Non mi ricordo di lei, mi deve scusare, è l’età, però ricordo l’evento. Amo molto Salvo Braccini. Se è stata così gentile da aiutarmi col cellulare ne approfitto per ringraziarla ancora. Come si sente oggi? Spero meglio.
Le risposi dopo la colazione.
Sempre uno straccio, ma credo senza febbre. Salvo Braccini piace molto anche a me, qual è il suo libro preferito? Il mio Anime perse della serie del Commissario Felici.
È cominciata così la mia amicizia con Grazia, entrata nella mia vita con un messaggio fortuito sul cellulare e rivelatasi fonte di conforto con pochi messaggi serali, un’abitudine che si è consolidata nelle settimane. Lei mi chiedeva come stavo, io le rispondevo contenendo i piagnistei.
Ma tu devi sempre sminuirti così, cara Antonia? Puoi dirlo a chi ti sta intorno che sei triste.
Cara Grazia, tu hai ragione, ma sai cosa mi diceva sempre mia madre? “A nessuno piacciono le persone tristi” e ci provo in tutti i modi a contenermi, ma comincio a pensare che sia la mia natura. Ho la tristezza facile ed è per questo che sono sola.
Cara Antonia, ti sbagli. Ti senti triste perché sola, non viceversa. Pensaci un po’ questa sera, ma non ti affliggere, la primavera è alle porte.
Abbiamo conversato per tre mesi con piccoli messaggi di conforto fino alla soglia dell’estate. Ho provato a chiedere a Grazia delle sue tristezze, ma lei mi ha sempre scritto che non era stato un gran tempo quello della sua vita e che era molto più interessante ascoltare i racconti di un’esistenza giovane come la mia. Lasciai che decidesse lei il momento giusto per raccontarsi e approfittai un poco del conforto che sapeva darmi, ma mi pregò più volte di non sentirmi in colpa, era una sua scelta quella di ascoltarmi nei momenti di difficoltà. Tuttavia non la disturbai mai più del dovuto: solo qualche messaggio la sera, senza un orario preciso, senza pressioni né mai un tentativo di telefonata, non serviva sentirci parlare.
«Se un giorno si stanca di scriverti saprai già a cosa dare la colpa.»
«Alla mia faccia triste» risposi.
«Brava, vedi che se ti impegni ci riesci?»
«Grazie mamma.»
Terza parte
Grazia si stancò di scrivermi il 13 giugno, non ho più ricevuto suoi messaggi da allora. Non la presi male all’epoca, mi ero già preparata al peggio; Grazia si era stancata dei miei lamenti quotidiani e dei dialoghi psicotici con una madre defunta. Non le attribuii colpe, anzi, provavo una gratitudine sincera nei suoi confronti per il sollievo che avevamo condiviso.
Il 5 agosto, però, le ho riscritto.
Era domenica e fuori c’erano trentaquattro gradi nonostante fossero le otto di sera. Brioche era come al solito nell’armadio anche se nel suo nascondiglio i gradi erano probabilmente quaranta, ma non ho mai avuto la capacità di capire quel gatto. Sola in casa, le tapparelle di casa chiuse nel tentativo di impedire all’aria della sera, riscaldata dall’asfalto rovente della città, di entrare in casa. Ero in ferie tecnicamente, ma avevo dovuto rinunciare alla piccola vacanza con Barbara, la mia amica, per un infortunio al piede. Faceva così caldo che nemmeno mia madre aveva avuto la forza di rimproverarmi per essere inciampata in quel modo. Distesa sulla sdraio con le fasce elastiche della sedia che mi segnavano la pelle, scrissi a Grazia.
Cara Grazia, come stai? Sono Antonia, la tua amica di messaggi. Non voglio disturbarti, probabilmente sarai in vacanza, ma mi faceva piacere mandarti un saluto. Qui va tutto bene, soffro il caldo e aspetto con ansia settembre perché anche se le temperature sono atroci pure nei giorni del mio compleanno (il 17 settembre), so che siamo più vicine all’autunno. Ti mando un grande abbraccio, passa una buona estate. A.
Un piccolo tentativo, solo un saluto, ripetevo ad alta voce, mentre il labbro inferiore faceva le prove tecniche per la tremarella triste, gli angoli della bocca avevano raggiunto il mento e le lacrime erano già pronte per celebrare la nostalgia di Grazia.
«Non cominciare per cortesia» disse una voce dall’armadio che non sembrava quella di mia madre.
Alle 10 di mattina dell’8 agosto ricevetti una notifica da Grazia.
Salve, il numero non appartiene più alla sua amica Grazia, mi dispiace.
Sentii il tonfo degli angoli della mia bocca e un dispiacere nel petto.
Mi scusi, non lo sapevo. Grazie comunque per avermi risposto.
Ho attivato questo numero da un paio di settimane, purtroppo non so darle informazioni sulla sua amica. Non ha altri modi per contattarla?
È gentile a chiedermelo, però purtroppo no, avevo solo questo numero di telefono. Spero che non le sia successo nulla.
Nella peggiore delle ipotesi avrà smarrito il telefono e non è riuscita a riprendere il vecchio numero. Se ha un’urgenza può scriverle su Facebook, no?
Non conosco il suo cognome purtroppo, ci siamo conosciute alla presentazione di un libro, proverò a cercarla di nuovo in libreria. È un’amica cara e mi manca particolarmente oggi.
Se ha bisogno di aiuto mi dica pure.
E fu così che persi Grazia, che non ho più visto né sentito, nemmeno quando Salvo Braccini è tornato in città a presentare il nuovo romanzo della serie del Commissario Felici. La penso spesso, spero stia bene, anche se non averla vista alla presentazione di Braccini non mi è sembrato un buon segno. Io senza di lei mi arrangio, ma ho ritrovato una nuova scintilla di conforto inaspettato nei pochi messaggi che scambio la sera con Pasquale che vive a Roma, anche lui da solo, ma conta di riuscire a tornare a casa sua, a Molfetta in provincia di Bari, non appena otterrà il trasferimento. È un insegnante, ha una moglie che vive giù e la lontananza è dura per loro.
Parlando con lui ho scoperto che, come la giri e la volti, anche Pasquale è triste, pure lui soprattutto di sera e insieme siamo giunti alla conclusione che non ne siamo responsabili, la tristezza ci abita dentro e ci avvelena contro la nostra volontà. Però, se posso dirlo, in una cosa Pasquale è molto più fortunato di me: la sua tristezza non ha la voce insistente di mia madre.
Foto di Alessia Ragno.