Un gesto pericoloso

tramonto arancio su una strada statale visto da un'auto

tramonto arancio su una strada statale visto da un'autoTornavo a casa nel tramonto anticipato di metà settembre quando ho fatto cenno a un uomo di calmarsi. Ho esagerato.
«Un gesto pericoloso», mi hanno detto a casa.
«Non sono riuscita a trattenermi» ho risposto.
Eravamo in auto, io nella mia modesta utilitaria, lui in una monovolume tirata a lucido. È scattato il verde del semaforo e non mi ha dato il tempo di raccogliere le idee, abbassare la mano sul cambio, inserire la marcia e accelerare. Aveva già suonato il clacson un paio di semafori prima, l’avevo intercettato nello specchietto retrovisore che mi parlava alterato. Gli ho chiesto scusa mentalmente, poi ho proseguito per la mia strada e dopo un paio di svolte mi sembrava di averlo perso e ho tirato un sospiro di sollievo.
Al semaforo dell’ultimo incrocio, quello vicino casa, mi sono distratta. Fissavo le mani lucide di crema solare, l’ultima della stagione, il sole tenue brillava sui solchi delle mani, la cicatrice sul dorso sinistro si rifletteva sul parabrezza confondendosi con gocce di pioggia antiche. Non ho avuto il tempo di realizzare cosa stesse succedendo, il suo clacson suonava di nuovo insistente e le altre auto hanno fatto il coro per ingiuriarmi e strattonare le orecchie, mi ripetevano che ero solo una buona a nulla. È stato allora che ho sollevato lenta la mano destra, l’ho esibita salda e sicura, come non era mai stata nella mia vita, e ho aperto le dita muovendo la mano avanti e dietro.
«Ti devi calmare, non sei il padrone della strada. Non puoi esibirti in questa piazzata ogni volta che il semaforo diventa verde. Non mi devi prevaricare» gli stavo dicendo con la mano, ma quello non ha capito niente e ha superato di forza la mia auto modesta lasciandomi in una nuvola grigio intenso.
«Avrebbe potuto farti del male, scendere dall’auto, picchiare forte sul cofano e spaventarti a morte. Non farlo mai più hai capito? Non reagire con quel tipo di persone».
Io ho annuito per farli tacere, ma sotto il tavolo stringevo i pugni per la rabbia.

Photo credits: Alessia Ragno.

È una sfortuna

un cane bianco in movimento in una strada cittadina alla luce dei lampioni.

Un giorno intero dopo l’ultima pioggia, le scie tracciate dalle lumache continuano a brillare nella luce arancio dei lampioni, ramificandosi incontrollate sull’asfalto e sui marciapiedi sconnessi. In quell’intricato percorso argenteo qualcuna non è riuscita a completare il disegno che aveva immaginato e giace schiacciata in una pozza piena di cocci. Quando le hanno cancellate da questa esistenza infelice, un rumore croccante si è sentito netto sopra ogni cosa a sovrastare persino il rombo delle auto in transito. Nessuno dei presenti, però, si è scomposto per quell’accadimento insolito e così il senso di colpa non si è propagato come ci si auspicherebbe dopo così tante perdite, ma si è concentrato investendo una sola malcapitata che passava di là per caso, l’unica persona davvero sovrappensiero e per questo più indifesa.

Lo scrocchiare dei gusci, allora, l’ha colpita mentre si trovava in traiettoria, ma non ci sono state conseguenze immediate, anzi, la donna non si è accorta di nulla, se non di un leggero prurito all’interno dell’orecchio destro, seguito a ruota da quello sinistro; il lieve fastidio ha poi raggiunto la sommità della testa andando in risonanza con la vibrazione dei pensieri già presenti. Il senso di colpa ha attecchito nel movimento fertile di parole e concetti che stava abitando quella mente indaffarata e ha detonato alla prima lumaca schiacciata dalla suola di gomma delle scarpe di lei.

«Maledizione», ha detto a bocca stretta e purtroppo un’altra sfortunata coincidenza ha voluto che fosse proprio quella la formula magica che non doveva pronunciare, perché così il rimorso si è moltiplicato nel corpo all’istante, rimbalzando sulle pareti dello stomaco e facendosi strada nel sangue fino a emergere sulla pelle fresca per irradiarsi dal corpo di lei come un’aura luminescente. L’ironia più grande di questo quadro dipinto dal caso sta nel fatto che l’aura di colpa che si è sviluppata intorno alla donna sia dello stesso identico colore delle scie di chi, fra le lumache, è sopravvissuta.

Una donna luminescente di colpa si aggira, allora, nel quartiere mezzo vivo e mezzo morto della periferia di Bari piena di erbacce, quelle a cui miravano le lumache artiste ancora ubriache di pioggia a distanza di un giorno dall’ultima goccia. Quest’aura ha un peso specifico e un proprio volume, ma la donna non lo sa e crede che la fatica nuova che ha sentito all’improvviso, dopo aver schiacciato quell’unica lumaca e pronunciato la parola magica, sia solamente la stanchezza della giornata, della settimana, del mese e dell’anno intero. Invece il peso della colpa di così tanti gusci scrocchiati logorerà muscoli e nervi della povera malcapitata, la rallenteranno di un millesimo di secondo a ogni passo, scavando nicchie nella materia cerebrale che non saranno mai più riparabili.

Ci vorrà molto tempo perché l’aura di colpa scompaia, ci vorrà ancora più tempo affinché la donna realizzi l’accaduto perché non è facile comprendere che un rumore qualsiasi nella strada della sera possa diventare per lei peso e volume ulteriore da trascinare nel quotidiano. Ma che ci può fare la povera donna contro il potere del caso che l’ha investita in una strada qualsiasi di un quartiere periferico e pieno di erbacce nella Bari odierna.

un cane bianco in movimento in una strada cittadina alla luce dei lampioni.A seguirla con dedizione, qualche passo più indietro, compare il suo cane bianco i cui movimenti appaiono frenetici e scoordinati; non ha aura, ma i suoi contorni sono ugualmente sfumati per il manto mosso dal venticello della sera che lo fa sembrare una nuvola di felicità immotivata. Nel momento della detonazione del senso di colpa a seguito della parola magica pronunciata per una pura casualità, il cane era pochi passi dietro la donna, impegnato ad annusare le già citate erbacce nel mezzo delle quali scorgeva più d’una lumaca stremata dal viaggio, ma giunta sana e salva nella terra promessa. E siccome a lui non interessano i sensi di colpa e le auree argentee involontarie, né la fatica nuova della donna che rallenta a ogni passo, ha spalancato la mandibola per assaggiare la felicità passeggera delle lumache vittoriose. Ha masticato il guscio ancora pieno, ma il sapore in esso contenuto non si è rivelato granché e l’ha risputato storcendo il naso rosato che nella sera sembra del colore della liquirizia.

La donna pesante un corpo e un’aura ha così proseguito il suo cammino verso la fine della strada col passo attento per scongiurare ogni altro incontro tra scarpe e lumache; dietro di lei il cane bianco, imperturbabile, che ha proseguito l’assaggio compulsivo di almeno altri sei gusci umidi, per sincerarsi che il loro sapore non fosse cambiato nel frattempo. Ma nonostante le lumache masticate nessuna responsabilità potrà mai essergli attribuita per il destino della sua compagna umana: la colpa non sceglie, ma t’investe per caso e s’incendia solo se pronunci la parola magica mentre passeggi ignara nella periferia di Bari più trascurata.

É stata davvero una sfortuna, ma a qualcuno dovrà pure toccare ogni tanto.

Foto di Alessia Ragno.

La gabbia dei conigli, Tess Gunty

copertina del romanzo la gabbia dei conigli di tess Gunty: la sagoma di una donna con un fiore in mano, il volto nascosto

L’esordio della scrittrice Tess Gunty si chiama La gabbia dei conigli, in Italia edito da Guanda nella traduzione di Alba Bariffi, ed è il romanzo vincitore del National Book Award for Fiction del 2022. Si tratta della più giovane scrittrice a vincere dai tempi di Philip Roth, che all’epoca della vittoria per Goodbye, Columbus, nel 1960, aveva 27 anni.

Nelle intenzioni, La gabbia dei conigli è un romanzo polifonico, ricco di personaggi stravaganti e ossessivi, tutti abitanti della Conigliera, un complesso residenziale claustrofobico ricavato da vecchi alloggi per operai della immaginaria fabbrica automobilistica Zorn dell’altrettanto immaginaria città di Vacca Vale, Indiana. Vacca Vale è il simbolo di tutte quelle città del Midwest statunitense, nella Rust Belt per la precisione, che hanno conosciuto il declino economico dopo la chiusura improvvisa delle fabbriche manifatturiere che tanto avevano promesso.

In questo contesto decadente, svetta la storia di Blandine Watkins, un’eterea diciottenne troppo piccola per innescare una rivoluzione, ma determinata a fare la sua parte. Fra dialoghi psichedelici, ossessioni malsane e solidi discorsi anticapitalismo, Blandine diventa una nuova eroina della narrativa statunitense: lucida, visionaria e, all’occorrenza, portatrice sana di rabbia. L’analisi del romanzo, tra riferimenti letterari, storici e cinematografici – tra cui Michael Moore, Maggie Nelson e Joyce Carol Oates e un suo romanzo di vent’anni fa a cui sono molto legata – è su L’Indiependentee

Per approfondire alcuni temi dell’analisi

Nell’esergo del romanzo, Gunty cita un dialogo estratto dal primo documentario di Michael Moore, Roger & Me, del 1989. Si tratta del racconto del declino economico della città di Flint, in Michigan, luogo natale di Moore, a seguito della chiusura della fabbrica General Motors e la perdita del lavoro da parte di trentamila operai.
Il Roger del titolo è Roger B. Smith, l’allora amministratore delegato della General Motors.
Su Youtube è disponibile il trailer del documentario.

Nell’analisi su L’Indiependente cito anche Bestie, romanzo di Joyce Carol Oates del 2002.
Gillian Brauer è una studentessa completamente affascinata dal suo professore di poesia al college, Andre Harrow, e dalla moglie scultrice, Dorcas. L’intreccio fra i tre si fa progressivamente torbido e pericoloso fino alla vendetta finale di una Gillian trasformatasi, finalmente, da preda in cacciatrice.

Approfondimenti sull’autrice

Su YouTube è disponibile il video della vittoria del National Book Award for Fiction del 2022.

Da ascoltare anche questa intervista a Tess Gunty per Barnes & Noble in cui cita le sue ispirazioni letterarie.

Piccola fantasia

Un ragazzo e una ragazza guardano foto dei queen appese su un muro per una mostra, Queen a Budapest.

Ha dormito poco lontano dall’area del concerto per unirsi alla fila sin dall’alba, ma il campo in cui ha parcheggiato la vecchia auto del padre è ora circondato da transenne. Piove e il terreno è diventato fango.
«Ma che fate, oh?» grida a due tizi che martellano più avanti.
«Questo è un parcheggio a pagamento adesso.»
«E chi l’ha deciso?»
«Noi. Paga oppure vattene con quella ferraglia.»
Allarga le braccia esasperato: l’auto è bloccata e il prato è già gremito. I cancelli aprono all’una, ma non è sicuro se riuscirà ad arrivare sotto il palco.

Quando si unisce alla fila il fango gli arriva già alle caviglie, riesce a oltrepassare i cancelli d’ingresso sulle note dei gruppi di supporto. Cammina per ore senza fermarsi, il pubblico grida, sono arrivati i Queen. Gli prende una frenesia strana, ma sono tutti incastrati e si sfoga tormentando il biglietto nella tasca. Dal palco la musica si ferma più volte, in fondo si stanno picchiando, ma lui cammina sporco di fango fino alle ginocchia anche se ha smesso di piovere. Due tizi ubriachi spaccano bottiglie e la sicurezza non riesce a raggiungerli; schiva cocci di vetro e spintoni, supera un tizio con la videocamera e un gruppo di ragazze ubriache. La borsa che ha a tracolla s’è riempita d’acqua, il biglietto è una poltiglia, ma quando il concerto riprende è a buon punto, può ancora farcela.

Su Love of my life è quasi vicino, ritrova il tizio con la videocamera e gli passa accanto sorridendo, ma quello non s’accorge nemmeno di lui, è troppo concentrato a mantenere l’equilibrio. Il concerto s’interrompe ancora, dall’altra parte del campo urlano, ma lui prosegue testardo e guadagna altre posizioni. Arrivato al palco, a un metro e molte teste da lui, si ferma soddisfatto e distrutto. Un uomo dietro lo quinte lo fotografa, lui non se ne accorge.

Nel 2022 la sua espressione seria è stampata su carta fotografica, in basso a destra c’è un bollino che ne certifica l’originalità. Si vedono la sua giacca blu, la maglietta celeste, i capelli scompigliati e lo sguardo concentrato e stanco. In prospettiva sembra che Freddie Mercury canti solo per lui.

Concerto per Attilio

Prato di un parco con ragazzi e ragazze seduti a parlare

 

Attilio vive solo in un appartamento al piano terra di un edificio rosso e alto. È vicino al parco, dove passa tutto il suo tempo, soprattutto d’estate. Esce la mattina dopo un’abbondante colazione – pane tuffato nel latte -, e va incontro al suo amico edicolante che alza la saracinesca alle sette circa. Compra il giornale, a volte anche “La settimana enigmistica”, e con la sedia pieghevole si posiziona sempre sotto lo stesso albero. All’ora di pranzo torna a casa, mangia pane e pomodoro con olio abbondante, e alle due e mezza riprende la sedia per la pennichella nel parco.
Oggi, però, è una giornata speciale perché nel suo solito posto ci sono camioncini, strumenti, sedie e microfoni. Il giovanotto sudato che lavora sotto il sole lo informa che stasera ci sarà un concerto.
«Ma devo pagare?»
«No è gratis.»
Attilio si illumina.
«Oggi è festa» dice ad alta voce.
Cena con un cornetto gelato comprato al chiosco e conquista, sempre con la fidata sedia personale, un posto d’eccezione al lato destro del palco, attaccato alla transenna.
Alle otto e mezza la musica inizia. Alle prime note Attilio chiude gli occhi e immagina di essere in una grande arena, anzi no, è in un teatro, al Petruzzelli magari. Non ci è mai entrato, ma lo immagina fresco come la brezza delle sere di agosto, con la stessa erba sotto i piedi e molte meno zanzare.
«Proseguiamo il concerto con una fantasia di successi di Ennio Morricone» annuncia il maestro d’orchestra con un leggero affanno.
Attilio non ci pensa un attimo, apre gli occhi e dice a gran voce: «E Nino Rota? Quando suonate Nino Rota?»
Il maestro sorride dal palco, il pubblico applaude divertito, Attilio si sorprende del suo ardire.
«Le prometto che arriva. Ennio Morricone, Piero Piccioni e poi, solo per lei, Nino Rota.»
Attilio si emoziona e applaude forte, il pubblico lo segue e batte di nuovo le mani un po’ per il maestro d’orchestra e un po’ per lui.
Quando arrivano le note di “Otto e mezzo”, Attilio le riconosce e si guarda intorno compiaciuto. Il maestro la sta dedicando a lui, ne è sicuro, e per ringraziarlo si alza dalla sedia e fa una riverenza, poi poggia i gomiti sulla transenna e con le mani segue il ritmo del concerto che gli hanno dedicato battendo il tempo sul metallo.

Concerto notturno: un palco al centro iluminato
Parco Due Giugno in notturna, Bari, 2022.

Foto di Alessia Ragno.

Brava, bis!

un ristorante sugli scogli fotografato al tramonto, con le onde mosse dal maestrale

Quando attraversa la strada in piena curva, una berlina grigia suona il clacson e la manda a quel paese, ma lei non reagisce, anzi, aumenta il passo tirando il braccio della figlia irrigidita per lo spavento. Quando arrivano sul marciapiede corre verso il mare come niente fosse accaduto. C’è maestrale, le onde alte bagnano l’asfalto e la pista ciclabile sbiadita. La pizzeria è poco più avanti e le fa cenno di proseguire, vedranno le onde dopo cena, ma la bambina è già affacciata sul muretto del lungomare.
«Ti bagni così!» grida, e appena finisce di pronunciare la frase l’acqua spumosa s’infrange sugli scogli e ricade schizzandole. Adesso è lei a irrigidirsi perché teme la reazione della figlia, ma non succede nulla, anzi la piccola ride e lei sente i muscoli rilassarsi.
In fila alla cassa per le pizze d’asporto fissano il menu sulla lavagna come se contenesse i segreti del mondo, ma la bambina sa leggere poco e lei, più che altro, ha spento il cervello per ricaricarsi. Fa così quando è triste. Quando arriva il loro turno ordinano due pizze e le sgagliozze, poi lei si siede all’ultimo tavolino rimasto libero, mentre sua figlia sceglie di ballare nel corridoio tra gli altri tavoli. La sorveglia da lontano con le braccia incrociate sul petto, accanto a lei una signora anziana applaude tenendo il tempo immaginario di una musica che non c’è. Scivola sulla sedia curvando la schiena, come se volesse addormentarsi cullata dal maestrale, l’applauso della vecchia e i numeri delle pizze urlati in un microfono dal suono distorto. Altri clienti in attesa le rivolgono domande che non capisce, ma annuisce cortese con gli occhi spenti.
«Numero cinquantasei» grida l’altoparlante, tocca a loro.
Riemerge di soprassalto dal torpore, fa un cenno alla figlia che danza ancora e quando abbassa lo sguardo si rende conto che le sedie sono andate tutte via. Hanno perso il tavolo e ora toccherà mangiare sul muretto.
«Numero CINQUANTASEI!» urlano di nuovo.
«Eccomi» risponde correndo verso il pizzaiolo. Dietro di lei, sua figlia fa un ultimo inchino per salutare il pubblico.
La vecchia signora chiede il bis applaudendo con trasporto.

un ristorante sugli scogli fotografato al tramonto, con le onde mosse dal maestrale
Lungomare di Bari
Foto di Alessia Ragno.

Il maestrale è troppo forte

polignano a mare, vista del mare dal ponte della città con a destra e sinistra le case e di fronte la spiaggia e il mare

vista da un lungomare al tramonto, il mare sullo sfondo e il muretto e una ringhiera in primo pianoParlano sentendosi a malapena nel maestrale che scuote panni stesi e luminarie.
«C’è la festa del patrono la settimana prossima?»
«Eh? Peppì che hai detto?»
«La festa patronale!»
«Sì, sono le luminarie della festa.»
«Dici che cadono se il vento continua così?» urla Peppino.
«No, ma quando mai» risponde poggiando una mano a uno dei pali di legno dipinti di bianco. «So’ solidi Peppì, questa è un’arte antica, non si piega al maestrale», ma si spostano entrambi di qualche passo, pensando all’unisono che non si sa mai.
Percorrono una porzione di lungomare meno trafficata del solito, i turisti nei dehor dei ristoranti sembrano pesci in un acquario.
«Prima qua c’era il negozio di Ciccio, te lo ricordi?»
«Son tutti ristoranti qua.»
«Sì ma hai capito? Il negozio di Ciccio!»
«Peppì ho capito, il pescivendolo. Non ci sta più mo’.»
«Eh, venivo qua con mio figlio» e sospira senza che nessuno lo senta.
Quando riemergono nella strada principale il rumore del vento è coperto da risate e bottiglie che tintinnano. Rinunciano a parlarsi perché si sono detti già tutto. Peppino strofina gli occhiali ruvidi di salsedine sulla polo stirata, ma le lenti, invece di pulirsi, si riempiono di aloni circolari a cui sembra non esserci rimedio. Strisciano le ciabatte sulle chianche lisce, è il loro modo di accarezzare strade che gli erano care, poi accelerano il passo per arrivare sul ponte che sta appiccicato alla città vecchia. Il vento non molla la presa e continua a stordirli. Una turista con la gonna a fiori che sventola come una bandiera chiede a gesti se possono scattarle una foto. Solo Peppino annuisce cortese, ma le foto che fa sono scure e sfocate perché il maestrale lo disturba. La turista sembra contenta e corre via pronunciando parole incomprensibili.
«Ma tu hai sentito che ha detto?»
«No, sta il vento.»
Peppino è deluso.
Quando si siedono l’uno accanto all’altro nel treruote ammaccato, Peppino lo lascia guidare verso casa con le mani che tremano, lo sterzo scosso dallo stesso vento che agitava le luminarie.
«Te la senti di guidare? Non è che il vento è troppo forte?», la voce coperta dal motore.
«Che hai detto Peppì? Non sento!»

Foto di Alessia Ragno.