Sequenza

teatro Petruzzelli di bari visto dal finestrino di un autobus

teatro Petruzzelli di bari visto dal finestrino di un autobusUno starnuto fragoroso, poi un secondo più forte. Il tizio che gli passa le casse si ferma e gli chiede nervoso: «Ce d’è, u covìd?». Il ragazzo fa cenno di no con la testa, gli toglie la cassa di mano e la lancia in malo modo alle sue spalle. Il rumore dell’atterraggio è coperto dal motorino che gli sfreccia accanto; chi guida alza un braccio in segno di saluto, lui risponde con un gesto del mento. È il fattorino della macelleria e quando si ferma sembra smonti da cavallo, con l’anca che compie un movimento ampio; si sfila il casco pieno di ammaccature e lo inforca come una borsetta col braccio nudo perché ha tagliato le maniche della camicia. Recupera dal bauletto la busta da consegnare e si lancia, atletico, verso un uomo coi baffi che lo sta già aspettando. Nel ripartire quasi investe l’anziano signore con il berretto del Bari e per il nervoso gli dedica un bestemmione, ma quello non lo ascolta e allinea l’una dopo l’altra le gambe secche e bianche da bermuda precoci, fino a che non emerge su Corso Vittorio Emanuele. Cammina sul bordo esatto dell’ombra dei palazzi, è in ritardo e si tranquillizza solo dieci minuti dopo, alla vista della pensilina col tabellone degli orari e l’autobus che sta arrivando. Scuote una mano per richiamare l’attenzione dell’autista mentre con le gambe accelera vistosamente. «Grazie giovane!» dice col fiato corto quando riesce a salire e si siede con un gran sospiro, spalmando le cosce nude sulla plastica rovente. Nell’autobus c’è un tizio con le gambe da ragno e la pancia prominente che ha assistito alla scena. È di malumore perché suda, si sventola col biglietto grande come il suo pollice, ma la situazione non migliora. Girerà in autobus fino all’ora di pranzo, come fa sempre, ma oggi c’è il più fastidioso degli inconvenienti: i vetri sono coperti dagli adesivi pubblicitari, una pioggia fitta di pallini bianchi gli blocca la visuale. Li detesta, ma quando l’autobus riprende la sua corsa, inizia a contarli per tenersi occupato e si dimentica della strada.

Foto di Alessia Ragno.

Al parco ci chiediamo se siamo felici

uno skater al parco rossani di Bari mentre salta sul bordo di un vascone di cemento

parco rossani Bari, vista del prato e i palazzi sullo sfondoA Bari inaugurano la primavera con nuovi parchi cittadini, ma chi va a vederli per la prima volta indossa ancora il cappotto. Gli unici a sfidare il freddo senza giacche sono gli under 18 che, nel baccano generale, sembrano proprio felici. Calpestano l’erba nuova di zecca, inseguono il sole con le coperte per sdraiarcisi sopra, mentre chi di loro sceglie le panchine lucide e pulite alza al massimo il volume del cellulare sovrastando i pensieri dei passanti. Nel centro esatto del parco alcuni di loro si lanciano a turno su pattini e skate in un vascone di cemento, aggrappandosi solo all’ultimo momento sui bordi grigi e taglienti. C’è una ragazzina con gli occhiali e il caschetto che ignora il pubblico e si lancia senza pensare; ogni volta che scivola dal suo skate striscia gambe e mani sul cemento, ma non se ne preoccupa e si rialza subito.
Davanti all’ingresso principale del parco, un gruppo di over 50 si accalca parlando ad alta voce, le mascherine su labbra e menti, mentre i nasi sono scoperti. A loro non interessano il vascone di cemento, la ragazzina sicura, le coperte o gli altri skater; sono fermi lì a stringere le mascherine alla bocca come se dovessero tenere al sicuro le parole. Chi passa loro vicino intercetta pezzi del discorso, pare che si stiano chiedendo quando toccherà a loro essere felici.
«È il nostro turno adesso» dice a mezza bocca la donna alta che passa accanto a loro in quel momento, ma li supera in fretta e non glielo ripete. Quando arriva nel centro esatto del parco, la donna si ferma davanti al vascone e vede la ragazzina con gli occhiali cadere. Il rumore dello skate che sbatte sul cemento le fa impressione, ma la ragazzina comincia a ridere, sdraiata per terra con le braccia aperte, gli occhi strizzati a fissare il sole.
La donna alta sorride e si chiede quando sarà felice come quella ragazzina, ma se ne pente subito; allora scuote forte la testa per scacciare quel pensiero, rivolge un ultimo sguardo al vascone e va via a passo veloce.
Sa che non è ancora il suo turno, ma aspetterà.

Foto di Alessia Ragno.

Bye Bye vitamine di Rachel Khong

copertina del romanzo Bye Bye vitamine: fondo rosa e in primo piano un paio di scarpe appese a un filo dell'alta tensione, scarpe che contengono fiori rosa.

In Bye Bye Vitamine di Rachel Khong, edito da NN editore nella traduzione si Silvia Rota Sperti, c’è Ruth che torna a casa nella Vigilia di Natale per rimanerci un anno – o almeno così immagina – perché hanno bisogno di lei: il padre mostra i primi segni della malattia neurodegenerativa che gli è stata diagnosticata, l’Alzheimer, e la sua storia d’amore con Joel è finita, non ha più senso rimanere a San Francisco. Bye Bye Vitamine, allora, è il diario dello smarrimento dopo la fine di una storia, dell’accettazione della malattia di un padre e della rassegna inevitabile di tutti i ricordi, gli errori e gli episodi del passato.
Le vitamine del titolo fanno parte di quei piccoli gesti che si mettono in atto per respingere il dolore. Alla diagnosi di Alzheimer la madre vieta l’alluminio, si ossessiona con centrifugati e cibo salutare e butta giù compresse di B-12 e succo di sedano. Si reagisce così al dolore e alla paura, prendendo le decisioni più inaspettate e folli, costruendo nuove routine che si crede salvino dal gorgo della tristezza, ma che poi finiscono abbandonate poco dopo aver cominciato. E se non ci fosse un piglio comico in questo romanzo, sarebbe anche una scelta struggente: una patetica, eppure profondissima, necessità di riparare la vita con piccoli cerotti colorati anche se hai un male cane perché ti sei tagliato con la carta, ma almeno i disegni dei cerotti distraggono un poco e fanno sorridere.

Con una scrittura veloce e istintiva, che segue di fatto i pensieri e le associazioni mentali del personaggio protagonista, Rachel Khong costruisce un romanzo che è un po’ memoir e un po’ autoanalisi.

Copertina anglosassone del romanzo Bye Bye Vitamine, scritta nera su fondo di silhouette di limoni colorati di fucsia, giallo e arancione.Come si elabora il declino, figurato e metaforico, di un genitore? Come si convive con la sua malattia, il passato imperfetto e l’urgenza di stargli lontana perché la vicinanza porta solo dolore?
C’è una rassegnazione diffusa nella prima metà di Bye Bye Vitamine, che Ruth combatte con una vecchia amica, i ricordi, il libretto rosso in cui il padre annotava i suoi pensieri ed episodi di quando era una bambina, le rinunce davanti ai rimedi curiosi della madre e i tentativi di riportare il fratello Linus a casa. Il primo tema portante della narrazione è proprio in questa rassegnazione: niente cambia davvero, soprattutto una diagnosi feroce, ma ci si prova lo stesso anche se la vita è “solo” un lungo tentativo, più o meno convinto, di tenere tutto insieme. Ruth lo fa bevendo con l’amica di sempre, ma anche intrecciando nuovi rapporti e regalando, qua e là, notizie totalmente scollegate dal contesto, eppure significative. Si legge del «tizio» che ha inventato i tergicristalli, del signor Alzheimer, persino dei pistacchi che sono la frutta secca meno calorica. E a che serve tutto questo? A nulla sembrerebbe, ma sarebbe un errore di valutazione. È anche con queste nozioni che si va avanti.

Nella seconda metà del romanzo la situazione cambia. La madre di Ruth si stufa persino dei rimedi temporanei, rinuncia al divieto dell’alluminio, alle vitamine, smette di cucinare, lavora e quando torna a casa si chiude nella sua stanza. Ruth vorrebbe dirle, nella sua maniera goffa e piena di aneddoti, che la malattia del padre non è una loro colpa, ma non è così facile. In qualche modo, però, si mette nuovamente in moto l’elaborazione emotiva degli avvenimenti degli ultimi mesi e da confusione e paura emergono i cocci di una vita precaria da rimettere insieme, con un nuovo senso. Rachel Khong, allora, fresca e diretta, porta avanti una analisi del tutto personale dei rapporti umani tipica degli autori di questa nuova letteratura ( Sally Rooney, Lisa Halliday, ecc.) delle donne millennial: profonda, drammatica, ma non priva di soluzioni. E questo topos non adombra in nessun modo il rapporto viscerale con il proprio io, su cui Ruth è talmente concentrata da dimenticare persino di mangiare. E per quanto la felicità di Ruth sia inevitabilmente calibrata sugli alti e bassi di questo padre imperfetto che si sta perdendo, e per quanto sia irresistibile la voglia di fare bilanci della propria vita e di quelle degli altri, a giugno scrive che va quasi meglio, pur nel continuo riaffiorare di ricordi, rimpianti, errori, insomma, della vita così com’è. E questa è la conquista del significato più profondo di un’esistenza, dettaglio che emerge evidente anche nell’analisi della traduttrice, Silvia Rota Sperti, in coda al romanzo:

Bye Bye Vitamine è una lezione su come sia importante vivere il presente spegnendo il resto, anche solo per pochi attimi.