Ogni anno, da quando esisteva la stanza, la primavera le portava in dono un miracolo gentile che aveva ribattezzato, in un raro slancio poetico, il limbo dorato. Si trattava di un’ora intera, quella tra le due e le tre del pomeriggio, in cui la luce del sole riempiva la finestrella e illuminava il riposo dopo una lunga mattinata di lavoro. La luce non era proprio quella diretta del sole, bensì un suo riflesso generato dall’edificio al di là della strada, che a sua volta investiva prima il palazzo di casa, poi la finestra del soggiorno e, infine, giungeva alla finestrella costruita con le sue mani. In un certo senso si poteva dire che il limbo dorato fosse una sua creazione, accidentale certo, ma comunque opera sua, visto che con qualche calcolo spannometrico, e molta fortuna, era riuscita a orientare verso il sole primaverile la stanza che stava costruendo al centro del soggiorno.
Aveva lavorato a mani nude e con strumenti di lavoro approssimativi, ma i risultati erano stupefacenti: una parete con la piccola finestra del limbo dorato, due muri interi, una quarta parete con la sagoma per l’ingresso e una porta comprata online poggiata sull’uscio. Aveva ottenuto il numero sufficiente di elementi per completare la nuova stanza che aveva immaginato.
Il piccolo ambiente misurava due metri per due secondo le forze congiunte del metro da sarta e il dizionario di italiano che usava come riferimenti; la finestrella, invece, era larga tre dizionari impilati e il volume portava ancora i segni del tempo passato a sostenere i mattoni mentre la miscela di calce asciugava. Era una stanza essenziale, ancora in corso d’opera e grezza nell’aspetto, ma sufficiente allo scopo. Ogni giorno ci lavorava seguendo i ritmi del suo corpo e della luce: ai compiti più importanti e faticosi si dedicava di buon mattino fino all’una circa, poi il pranzo frugale in cucina e, a seguire, il riposo nella stanza che si rivelava sempre soddisfacente, ma che in primavera aveva un sapore diverso, di oro e di spezie. In quel frangente sospeso, i pensieri inseguivano il pulviscolo della luce dando corpo al desiderio pazzo di una primavera che durasse tutto l’anno, col limbo dorato a farle compagnia fino alla fine dei suoi giorni. Quel desiderio la cullava anche quando si rannicchiava sulla poltrona di velluto amaranto a fine giornata, sfiancata dal lavoro pomeridiano e con lo stomaco leggero per la cena semplice che si concedeva in stanza per non passare nemmeno un minuto di non luce nel resto della casa.
Era stata proprio la poltrona il primo oggetto di arredamento che aveva trascinato nella stanza costruita da lei. L’aveva sistemata di sbieco in un angolo così che potesse allungare il poggiapiedi per il sonno della sera nella diagonale della pianta quadrata. E che sollievo sdraiarsi avvolta nella coperta di cotone spesso piena di frange. In seguito aveva aggiunto due soffici cuscini di raso blu di Prussia a dare un tocco di eleganza, e una lampada da tavolo compatta collegata alla presa in soggiorno tramite un foro nella parete creato con un vecchio trapano. La polvere generata dal quel compito in apparenza semplice tormentava ancora adesso il velluto della poltrona dopo tanti mesi. Nell’angolo opposto aveva costruito due mensole rudimentali di mattoni rossi e calce grigio talpa: non belle, ma utili. Sul ripiano superiore una pianta di ciclamini di plastica coi fiori di stoffa fucsia che aveva comprato su internet credendola vera; in quello inferiore qualcuno dei vecchi libri d’arte di famiglia da sfogliare a sentimento nell’unica occasione in cui si concedeva di spolverare i ricordi: le notti insonni. Al lato del poggiapiedi aveva sistemato un tappeto morbido dalla sagoma fiorata troppo grande per la stanza. Lo rimuoveva ogni mattina prima dell’inizio dei lavori e lo risistemava la sera con precisione millimetrica, aiutata anche dai bordi che mantenevano la memoria di ogni piega sulla parete. Come le piaceva, al risveglio, affondare i piedi nudi nel rosa morbido di quel fiore, soprattutto perché il pavimento del soggiorno racchiuso dalle pareti della piccola stanza risentiva pesantemente degli schizzi di calce rappresi. In alcuni punti, infatti, non aveva fatto in tempo a piallare con la spatola da pasticceria che usava come cazzuola. I tutorial online che aveva consultato non le avevano fornito informazioni complete sui tempi di asciugatura e ogni giorno si dimostrava essenziale una buona dose d’improvvisazione. Tuttavia l’inventiva non le era mai mancata e il tappeto, di fatto, non era solo un elemento di arredo, ma impediva soprattutto che al buio le irregolarità le ferissero la pianta dei piedi bloccando i lavori per giorni, se non per settimane. Sarebbe stato un disastro.
In una grossa scatola di legno posizionata sotto la finestrella aveva raccolto il necessario per le emergenze, ovvero quei giorni in cui la permanenza nella stanza si sarebbe potuta protrarre più a lungo del previsto. All’interno aveva riposto qualche barretta ai cereali ben allineata, bottiglie d’acqua, tre cambi puliti, i prodotti per l’igiene essenziale e batterie per la luce tascabile. A dire la verità non le era mai capitata un’emergenza del genere, ma doveva essere tutto pronto per ogni evenienza.
Nella stanza non aveva introdotto nessuna foto di famiglia, non un accenno ai genitori né al passato col compagno di vita o ricordi che lo riguardassero. Era convinta che le avrebbero solo sottratto energie in un momento così delicato dei lavori di costruzione. Chissà, forse in un giorno non troppo lontano avrebbe riempito le pareti con le stampe e le foto che c’erano nel resto della casa. Di fronte alla poltrona ci sarebbe stato bene il ritratto in bianco e nero dei genitori in viaggio di nozze o forse uno dei quadri dipinti in gioventù dalla madre. Ma di una cosa era sicura: non avrebbe appeso niente che riguardasse lui. Da quando era andato via non era riuscita a sostenere la vista di nessuna foto che li ritraesse insieme e si convinse che per stare meglio dovesse dimenticare. E fu proprio per dimenticare che decise di impegnarsi nella costruzione della stanza, il progetto di cui andava più fiera, l’unica protezione possibile dal dolore.
Erano passati tre anni dall’inizio delle operazioni ed eccola lì la sua creatura imperfetta, ma così solida da poter essere abitata senza problemi già da qualche mese. Il rigore nel lavoro le aveva consentito di ottenere un risultato che andava oltre ogni più rosea previsione. In quella primavera, le quattro mura erano oramai completate e la finestrella del limbo dorato non mostrava segni di cedimento; per reputare la struttura completa, però, mancavano i rattoppi delle fessure tra i mattoni, incidenti dovuti alla sua inesperienza, e la porta di ingresso. Eppure l’aspetto grezzo del risultato non la disturbava, anzi, con soddisfazione si ripeteva che in quegli anni non solo aveva imparato da zero i rudimenti della muratura, ma soprattutto una lezione più preziosa: la nobile arte dell’accontentarsi. Nei piani iniziali, per esempio, le pareti sarebbero dovute essere bianche e, in uno slancio di ottimismo, aveva persino comprato cinque barattoli di vernice abbagliante che al momento giacevano accatastati nel resto del soggiorno. Il colore prevalente della stanza, infatti, era ancora il grigio, fatta salva qualche macchia di bianco stesa con un pennello nelle aree inferiori della parete sud, quella volta che pensò di poter camuffare i difetti con la pittura. Si rivelò subito un errore: illuminata con la lampada, l’area mostrava i segni sfrontati delle setole del pennello, sbavature antiestetiche e bozzi di origine ignota. La visione rischiò di farle perdere il controllo per la prima volta dall’inizio del progetto, e con il petto che vibrava e i pugni stretti all’altezza dei fianchi sentì urlare gli echi di malesseri passati e tristezze mai curate. Nel panico chiuse gli occhi e iniziò a contare i tempi del respiro concentrandosi solo sul movimento del diaframma, così come le avevano insegnato anni prima quando lui c’era ancora e insieme le paure sembravano governabili. Ritornò in sé con uno sforzo prolungato e quando rimise a fuoco la stanza il risultato del suo lavoro era ancora lì ad accoglierla con la sua bonaria imperfezione. Le fu chiaro, allora, che per stare bene doveva concentrarsi sul lavoro manuale: ultimare la struttura era l’unica garanzia di sopravvivenza perché solo nella stanza sarebbe stata al sicuro, al riparo dal mondo e dalla paura.
All’indomani di quel cedimento nulla più doveva turbarla. Innanzitutto si riappacificò con gli spiragli di luce e aria nelle pareti e persino coi grumi di calce solidificata, poi ci provò con la porta poggiata sull’uscio che pendeva a destra con desolazione. Quel passaggio fu più difficile, ma nei giorni di maggiore serenità faceva capolino persino un accenno di coraggio e con la voce netta e cristallina si prometteva che presto la porta sarebbe stata installata alla perfezione proteggendola dall’esterno. In quel giorno avrebbe fatto un’eccezione alla routine lanciandosi in una passeggiata per salutare definitivamente il quartiere, azione che pianificava da tantissimo tempo, ma gli intoppi con la porta erano ancora frequenti e non avrebbe rischiato di compromettere l’intero progetto per un momento di vanità. Rimandò ogni avventura, quindi, a tempi più generosi e mentre lavorava si ripeteva, con la stessa voce cristallina, che lavorare tra le quattro mura fatte a mano avrebbe diluito la paura.
Poiché aveva ancora tanto da fare con le pareti e la porta, applicò una fretta incrementale alle faccende svolte nel resto della casa e alla preparazione dei pasti. Ridusse al minimo anche il tempo passato al computer per pagare qualche bolletta e ordinare la spesa, l’unico contatto col mondo esterno che era costretta a mantenere. Con una mano muoveva il mouse e con l’altra sullo schermo copriva pubblicità, notizie e messaggi che comparivano a tradimento. Accorciò anche i momenti dedicati alla pulizia e alle funzioni corporali, staccò il filo del telefono e smise di rispondere al citofono perché camminare verso l’ingresso era solo una perdita di tempo e lei non aveva voglia di interagire con nessuno. Al fattorino della spesa chiedeva di lasciare le buste fuori dalla porta di casa, i vicini sul pianerottolo erano stati prontamente informati della procedura tramite un’e-mail, e lei avrebbe ritirato la spesa con calma alla prima pausa bagno dopo la consegna. Quando, poi, varcava la soglia della sua creazione in muratura, sentiva nascere in gola una fiammella di appagamento che alimentava con i mestieri del giorno fino a convertirla in una crepitante beatitudine concentrata. Questo miracolo incandescente era la prova definitiva che avesse scelto bene come impiegare il resto della sua vita. La stanza costruita nel centro del soggiorno della sua casa, a lungo progettata e per la quale si era trasformata in un’abile donna di fatica e di ingegno, era diventata il suo posto nel mondo e con lo slancio che si riserva all’idea di una sicura salvezza, si offrì all’opera in muratura non solo con il pensiero e l’impegno, ma anche col corpo, capace di mantenersi pacifico oramai solo quando era avvolto dalle quattro mura sbilenche.
Il mondo fuori, nel frattempo, procedeva spedito anche senza di lei, anzi, non si era nemmeno accorto di quel nascondiglio, e nel segreto di una notte di pioggia, lontana dal tepore del limbo dorato, la donna cominciò a sospettarlo. Quella notte non funzionarono i libri d’arte, né contare il tempo del respiro, allora improvvisò una soluzione per scacciare il rimuginare sventolando le mani ai lati delle orecchie per dare aria alla testa. Fu quasi vicina alla paura, ma una volta alzato lo sguardo mise a fuoco la porta pendente. Poggiava ancora sull’uscio senza chiodi o mastice a fissarla, e comprese che solo la porta sarebbe stata il baluardo efficace e credibile per proteggere il piccolo mondo migliore fatto in casa. Giurò solennemente che a partire dall’alba si sarebbe dedicata alla sua installazione definitiva.
Nei giorni successivi i pensieri sul mondo esterno si dissolsero con lentezza fino a salutare il ritorno della primavera, poi accolsero l’estate afosa e a seguire, di nuovo, i temutissimi autunno e inverno in attesa della bella stagione. Nel silenzio della concentrazione, zittì gli ultimi fuocherelli di emotività rimaneggiando buchi, piallando calce e allenandosi a spostare l’attenzione sui risultati ottenuti con il duro lavoro, ovvero: quattro mura tutto sommato funzionali, una luce dorata che nell’imminente primavera l’avrebbe avvolta puntuale dalle due alle tre del pomeriggio, e una porta di legno chiaro che finalmente era riuscita a incastrare nella parete. Fissati i cardini, la porta si muoveva con agilità, ma faticava a riaprirsi dopo essere stata chiusa a chiave. La cosa, però, non le sembrò un problema, anzi si convinse che fosse un segno e con soddisfazione concluse che chiusa nella stanza con la porta ben sigillata sarebbe stata così al sicuro che nessuno, nemmeno la paura, l’avrebbe più trovata.