Uno starnuto fragoroso, poi un secondo più forte. Il tizio che gli passa le casse si ferma e gli chiede nervoso: «Ce d’è, u covìd?». Il ragazzo fa cenno di no con la testa, gli toglie la cassa di mano e la lancia in malo modo alle sue spalle. Il rumore dell’atterraggio è coperto dal motorino che gli sfreccia accanto; chi guida alza un braccio in segno di saluto, lui risponde con un gesto del mento. È il fattorino della macelleria e quando si ferma sembra smonti da cavallo, con l’anca che compie un movimento ampio; si sfila il casco pieno di ammaccature e lo inforca come una borsetta col braccio nudo perché ha tagliato le maniche della camicia. Recupera dal bauletto la busta da consegnare e si lancia, atletico, verso un uomo coi baffi che lo sta già aspettando. Nel ripartire quasi investe l’anziano signore con il berretto del Bari e per il nervoso gli dedica un bestemmione, ma quello non lo ascolta e allinea l’una dopo l’altra le gambe secche e bianche da bermuda precoci, fino a che non emerge su Corso Vittorio Emanuele. Cammina sul bordo esatto dell’ombra dei palazzi, è in ritardo e si tranquillizza solo dieci minuti dopo, alla vista della pensilina col tabellone degli orari e l’autobus che sta arrivando. Scuote una mano per richiamare l’attenzione dell’autista mentre con le gambe accelera vistosamente. «Grazie giovane!» dice col fiato corto quando riesce a salire e si siede con un gran sospiro, spalmando le cosce nude sulla plastica rovente. Nell’autobus c’è un tizio con le gambe da ragno e la pancia prominente che ha assistito alla scena. È di malumore perché suda, si sventola col biglietto grande come il suo pollice, ma la situazione non migliora. Girerà in autobus fino all’ora di pranzo, come fa sempre, ma oggi c’è il più fastidioso degli inconvenienti: i vetri sono coperti dagli adesivi pubblicitari, una pioggia fitta di pallini bianchi gli blocca la visuale. Li detesta, ma quando l’autobus riprende la sua corsa, inizia a contarli per tenersi occupato e si dimentica della strada.
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