L’insegna luminosa

Bari strada con nebbia
Sfiancato dal dibattito che più l’ha coinvolto nei giorni natalizi, ovvero se a Bari facesse freddo davvero o si trattava di una parvenza d’inverno, concentrato soprattutto sul ruolo dell’umido capace di abbassare la temperatura percepita e raggiungere le ossa gelandole dall’interno, oppure banale patina di goccioline d’acqua appiccicate a ogni auto, edificio e persino sul portone di casa, il giovane P. passeggia da solo nella nebbia, la novità metereologica dell’anno appena iniziato. A vederla appare candida e fradicia e più volte P. tenta di afferrarla con una mano per capirne la consistenza, ma più si avvicina e più quella si ritrae dal suo tocco bambino. Quello che deduce lo immalinconisce: se gli oggetti lontani appaiono ovattati nei contorni ed emergono con pudore a ogni passo di lui, le immediate vicinanze mantengono l’apparenza spoglia e priva di mistero. È la solita vita di P. che non si arrende alla nebbia.

Bari strada con nebbiaNon ci sono altre anime in giro, persino il bar è deserto, ma sempre illuminato con entusiasmo. Il centro esatto delle coreografie di LED multicolore è una stella grande quanto l’ingresso, uno stargate natalizio che a P. è piaciuto dal primo momento in cui l’ha visto. Ha provato anche a cercarne una versione più contenuta per il suo balcone di casa, ma la più piccola, alta come un bambino, costava una fortuna. Con cento euro di lucine, ci aveva ragionato a fondo, avrebbe dovuto rinunciare a dieci cene con la pizza d’asporto, tre pranzi con gli amici quando li avrebbe rivisti, undici film al cinema da solo e persino sette spese essenziali dal fruttivendolo vicino casa. Sconfitto dal rigore logico dei conti, P. aveva optato per una mesta serie di luci bianche alimentate da tre pile stilo, rivelatesi presto incapaci di reggere la pressione del timer dell’accensione notturna. Si sono affievolite già intorno al dieci dicembre, con somma mestizia di P. e forse anche del quartiere intero che, senza dichiararlo, contava anche sul suo balcone addobbato a festa. A pensarci adesso, a passeggio nella nebbia, gli si pianta in mezzo alla fronte una tristezza malsana che immagina evidente come un’insegna luminosa che lo irride. Eccolo qui, l’uomo triste senza luci e senza amici in questa città che non gli appartiene, ma scritto con mille luccicanti LED multicolore. Nella vergogna, lo consola solo il pensiero che, in una notte come questa, la nebbia ne attenuti i contorni così da renderlo finalmente libero. P. esprime, allora, il primo desiderio dell’anno e lo fa con la voce solenne che rimbomba nella testa: «Vorrei raccogliere questa nebbia bianca e conservarla nelle tasche per attenuare i contorni dell’insegna luminosa che ho in mezzo alla fronte e far credere che sia una stella, la più brillante del quartiere, la più colorata della città». Conclusa la formula magica, P. si concede un ultimo tentativo: allunga le braccia davanti a sé e tende le mani fredde verso il bianco in fondo alla strada. Finalmente la sente. È nebbia lattiginosa e fresca, proprio come la immaginava, soffice come cotone, voluminosa come ovatta. Ne pizzica giusto un assaggio, l’essenziale per trasformare in stella la sua insegna luminosa personale, e lo ripone nelle tasche. Poi, con i talloni sollevati e la testa più leggera, riprende a camminare verso casa abbracciando il bianco che gli viene incontro.

Foto di Alessia Ragno.

Una vita migliore

La stazione di Molfetta in una giornata di sole
La stazione di Molfetta in una giornata di sole
Stazione di Molfetta, giugno 2010.

Sulla banchina della stazione si inseguono due carte appallottolate, ma nel movimento non si riesce a distinguere quale delle due sia il fazzoletto e quale l’involucro di un gelato. Peppino si concentra per seguire il loro movimento e a guardare bene gli viene il dubbio che la palla di carta più grande possa appartenere a una di quelle merende di cioccolato e biscotto che abbondano nel distributore all’ingresso. Nel pieno della sua analisi, però, le carte finiscono sui binari in un sussulto per poi riprendere a ruotare su loro stesse e l’una intorno all’altra, sfiorandosi più volte e allontanandosi di poco, fino a quando il passaggio di un treno veloce le solleva altissime sopra la tettoia e per almeno dieci secondi, Peppino li conta mentalmente, scompaiono dalla sua vista. Sono andate verso una vita migliore, pensa lui facendosi trasportare dalla coreografia dei due involucri abbandonati, vorrei seguirle fin su nel cielo, aggiunge mentre le immagina nella loro trasformazione da spazzatura a creature dell’aria. Nessuno dei presenti in stazione è attento alle due carte scomparse, sono amiche esclusive di Peppino a quanto pare, ma quando ricadono lontane, dopo che il vortice di vento ha lasciato la stazione, lui sconsolato si dice che si è sbagliato, sono solo spazzatura e nemmeno questa volta hanno cambiato il loro destino. Si intristisce un poco quando prendono a rotolare nella direzione opposta e si perdono per sempre. Peppino immagina di scendere sui binari e riunirle, ma è un pensiero fulmineo che si dissolve nella realtà che lo richiama a sé con gli annunci in diffusione e il passeggio di pochi pendolari accaldati.
Al binario uno sta arrivando il regionale da Bari, sa che è ancora presto per ritornare a casa, ma guarda comunque l’ora sul telefonino per calcolare con esattezza quanto tempo manca all’ora di pranzo. È un rito fondamentale perché gli permette di scandire i tempi della mattina e, cosa più importante di tutte, con la precisione che l’ha sempre contraddistinto riesce a evitare l’ora di punta del panificio sulla strada di casa. Si muoverà a mezzogiorno e quindici così da trovarsi in cucina per le tredici, quando inizia il telegiornale. Ogni giorno intorno al tavolo, con il suo quartino di pane fresco, l’olio buono, le verdure di stagione e una scatoletta di tonno quando è pigro o una frittatina quando ha voglia di cucinare, ci sono Peppino, il giornalista che legge le notizie in tv e il gatto Max sulla sedia libera. Che fortuna che c’è Max, si dice sempre, anche se non risponde mai a nessuna sua domanda, nemmeno un miagolio per tenerlo contento, non si fa accarezzare e vive nell’armadio d’inverno e sulla mensola della finestra d’estate, sempre a debita distanza, a parte quando riconosce l’apertura della scatoletta di tonno.

Da quando è in pensione, un anno esatto a settembre, Peppino passa ogni mattina in stazione. Adesso riconosce i vari dipendenti, i bigliettai, la giovane coppia che gestisce l’edicola senz’aria condizionata, e persino i volti di alcuni pendolari gli risultano oramai familiari. Con qualcuno accenna un saluto cortese, ricambiato con cura, con altre scambia una chiacchiera sul meteo e i ritardi dei treni. La domenica è il giorno più duro: il personale della stazione è ridotto, i pendolari non ci sono, i treni sono di meno, ma Peppino arriva comunque di buon’ora e alle sette e trenta è già sulla panchina della piattaforma principale. Non importa se piove o c’è il sole perché la banchina è riparata e se fa molto caldo è sufficiente aspettare il passaggio del treno veloce che non fa fermata e stride sui binari e negli ingranaggi perché ha fretta di andare. L’aria che smuove gli si infila nella camicia e in quel momento di furia del vento sente di poter essere sincero e immagina di librarsi in aria come le carte abbandonate sui binari. Ultimamente quando è certo di essere solo, soprattutto dopo l’ora di punta o più spesso di domenica, Peppino grida insieme al treno, coperto dai rumori di ferraglia che lo rendono invisibile. Grida spingendosi con le mani sulla panchina per farsi forza, la voce esce con tale impeto che sente le corde vocali strapparsi, ma non gli importa perché così butta fuori i dolori del suo cuore invecchiato di colpo. Quando anche l’ultima carrozza abbandona la stazione, lasciando dietro di sé solo un residuo di vento, Peppino si ricompone, anche se gli occhi rimangono lucidi per un bel po’ dopo ogni seduta. Le chiama proprio sedute come se fosse una conversazione terapeutica tra lui e un dottore, ma quando il treno dottore va via non saluta mai.
Una volta durante una seduta un’addetta alle pulizie mai incontrata prima, e di cui non aveva fatto in tempo ad accorgersi, aveva lanciato secchio e scope per terra per lo spavento scappando a passo svelto verso l’uscita. Mortificato, Peppino aveva sollevato gli attrezzi e ricomposto il carrello dei detersivi per riportarlo alla donna che si era nascosta in biglietteria. Non era riuscito a parlare con lei per la vergogna e il dispiacere, ma gli era stato detto che il bigliettaio le avesse spiegato la situazione. Dopo quella volta aveva prestato più attenzione, ma la donna, si chiamava Antonia, continuava a guardarlo con sospetto ogni volta che lo incontrava.

La mattina del ventisette giugno, una domenica, Peppino arriva in stazione alle sette e mezza come al solito, beve il caffè al bar e scambia due chiacchiere con il ragazzo nuovo alla macchinetta del caffè, vispo nonostante la sonnolenza; si dirige verso la solita panchina con in mano una fetta di crostata all’albicocca acquistata nel bar e una pesca gialla che si è portato da casa per la merenda di metà mattina. Il ragazzo vispo gli ha avvolto il dolce con un tovagliolo e quello non solo si è appiccicato alla marmellata, ma non ha nemmeno impedito che la punta di frolla si sbriciolasse nella bustina di carta. Se ne accorge quando è già seduto sulla panchina, in procinto di mangiare. Alla vista della fetta di crostata accartocciata e piena di carta pensa alla spazzatura svolazzante del giorno prima e si dispera, ma lo fa in silenzio, con un pizzicore nuovo che gli solletica il naso e gli occhi che si velano velocemente, ma altrettanto velocemente ritornano sicuri e solo un po’ rossi. Mastica crostata e brandelli di tovagliolo con aria rassegnata, che scena pietosa, si dice quando per una strana coincidenza cosmica riesce a guardarsi dall’esterno. Sono un vecchio triste e patetico, stravolto come questa fetta di crostata.

Sono passati due anni e mezzo da quel giorno in cui è arrivato in stazione e suo figlio non c’era. Il rito che avevano stabilito si è interrotto senza dargli il tempo per prepararsi. È l’ultima domenica di giugno di un anno che ha smesso di contare, di un tempo che avrebbe voluto non arrivasse mai. Con quel che resta del tovagliolo stretto alla punta delle dita della mano sinistra, Peppino rimane seduto composto con ancora qualche briciola nei baffi. Indossa un berretto con il logo della vecchia pizzeria sotto casa che non c’è più da anni, una camicia estiva a scacchi celesti, gli occhiali da lettura e il mazzetto di penne nel taschino per le parole crociate che comprerà dopo dal giornalaio. Il portafogli e il fazzoletto di stoffa sono invece al sicuro nella tasca laterale dei pantaloncini da pescatore. 

Peppino è seduto composto al centro del suo mondo, le mani poggia sulla pancia di pietra e il tovagliolo della crostata ancora tra le dita. Aspetta, anche se sa che ciò che aspetta non tornerà. Ma non importa, se l’è ripetuto tante volte, l’attesa stessa mi consola. L’attesa, infatti, lo sospende in un tempo in cui è tutto possibile, e può persino succedere che Massimo ritorni e scenda dal regionale Bari – Molfetta andandogli incontro a braccia spalancate. Chi può dirlo.

Ci hai messo così tanto a tornare Massimo, mi ero preoccupato, dirà Peppino quel giorno, stringendo a sé il corpo del figlio che odora di treno e stanchezza. Questi treni sono sempre in ritardo, non è colpa mia, risponderà lui infastidito. 

Peppino ha gli occhi chiusi e sorride, è così felice che il transito veloce del Roma-Lecce delle 11:38 lo sorprende, non l’ha sentito arrivare. Il treno fischia forte e Peppino sa che lo sta salutando e grida insieme a lui, anche se non ha controllato chi c’è sulla banchina. Ma questa volta non è la solita seduta per il dolore del cuore, è una conversazione che devono sentire tutti, persino Massimo dovunque egli sia. 

Aspetterò tutto il tempo che serve Massimo mio, dice Peppino in quell’urlo, scenderai da uno di questi treni e io sarò qui per te. Sono invecchiato, ma non ti devi spaventare perché sono sempre il tuo papà. Mi riconosci dalla camicia stirata di fresco e il cappello della pizzeria che ti piaceva tanto. Adesso l’hanno chiusa e mi dispiace assai, ma ti farò assaggiare la pizzetta del panificio sulla strada di casa che è comunque buona.

Quando il treno completa il transito in stazione, l’aria si fa veloce e il tovagliolo che avvolgeva la crostata gli scappa via dalle dita per volare in alto sopra la tettoia. Peppino aspetta che ricada per un bel po’, ma non si è più fatto vedere, nemmeno nei giorni successivi. Ha trovato davvero una vita migliore.

Foto di Alessia Ragno.

Mosche d’autunno

Campi incolti nella periferia di Bari e in fondo palazzi cittadini

L’autunno se la sta prendendo comoda, un eufemismo per dire che va tutto in malora, eventualità che a Mino pare molto chiara da un bel po’ di tempo, al punto che si chiede sempre con più insistenza se abbia ancora senso programmare le giornate con la solita cura. Tuttavia si occupa della routine senza mai sgarrare e, in qualche modo, ciò contribuisce a mantenere l’apparenza tranquilla di quest’uomo pieno di pensieri.

Mino si sveglia con fatica ogni mattina alle sette sorretto dal senso di colpa che gli irrobustisce la schiena e dà il via alla giornata senza darsi il tempo di pensare; una volta posati i piedi nudi sul pavimento fresco delle prime ore della giornata, il cervello affianca al suo solito pensiero, ovvero la disgregazione del mondo come l’ha sempre conosciuto, il nuovo compito: seguire la tabella di marcia della mattina senza sgarrare. Cammina veloce verso la piccola cucina, accende la fiamma sotto la caffettiera già pronta dalla sera prima, apre la credenza e sceglie la tazza del giorno, una di ceramica liscia e lucida con una nuvola in rilievo su un lato e una colomba dall’altro. Mino si rende conto che si tratta di una tazza più pasquale che propiziatoria per l’autunno, ma le altre giacciono ancora in lavastoviglie perché il giovedì non è ancora giorno di lavaggio. Lascia il caffè sul fuoco e si dirige verso il bagno ancora al buio per la tapparella abbassata. Secondo i conti perfezionati nell’ultimo anno, la sequenza di apertura della tapparella, pipì, lavaggio di mani, viso e denti dura esattamente il tempo della preparazione del caffè, minuto più, minuto meno. E nemmeno stavolta viene smentito: sente un borbottio provenire dalla cucina proprio quando sta per asciugare il viso. Si affretta, ma nessuna goccia d’acqua finisce sul pavimento e si guarda allo specchio compiaciuto del record raggiunto.
Il caffè occupa la tazza pasquale in un attimo e gli scalda le mani; come sarebbe bello se avessero davvero bisogno di essere scaldate in un mattino di fine novembre che sembra un nuovo mese aggiunto a quelli estivi, invece è ancora lì col pigiama a maniche corte. Al primo sorso ripassa cosa indosserà per la giornata in ufficio: jeans scuro, una t-shirt bianca e quel cardigan sintetico che produce un leggero crepitio quando la sera se lo sfila di fretta; al massimo, pensa, se proprio arriverà un brivido di freddo si coprirà con la giacchetta impermeabile più pesante. Sogna spesso, ultimamente, l’eventualità che l’autunno si risvegli all’improvviso e giochi uno scherzo a tutti quanti e per quanto conosca l’alta improbabilità di un cambio climatico così repentino, ci pensa con un trasporto tale da distrarsi dalla colazione e quando ritorna in sé scopre che il caffè è già finito e non ha nemmeno aperto la confezione dei biscotti con le gocce di cioccolato che aveva messo al centro del tavolo. Esita ancora prima di ritornare alla routine per concedersi un ultimo pensiero felice, l’immagine delle foglie colorate di rosso e giallo a invadere alberi e strade che ha visto su internet prima di addormentarsi.

Nella strada di casa che sbircia dalla finestra, invece, è tutto verde con qualche sparuta macchia di giallo, alcuni cespugli sono in fiore e la confusione si è impadronita di flora e fauna. Gli vengono in mente le mosche che in questi giorni si sono convinte stia tornando la primavera e nel caldo posticcio percorrono euforiche la stessa porzione di aria con traiettorie rettilinee e cambi di direzione drastici, come se sbattessero su pareti invisibili. Quando a Mino capita di attraversare i loro percorsi, ha sempre cura di non interrompere quel vagare confinato, ma almeno una moschina al giorno interpreta la sua presenza come un segno divino che la riempie di speranza di una vita possibile fuori dall’area di assegnazione. Quella singola e insistente moschina, allora, lo segue per ringraziarlo spostando il moto regolare intorno a Mino, appiccicandosi alla sua faccia, ai capelli, sbattendo sugli occhiali da vista mentre lui cammina a passo spedito verso l’ufficio. All’ennesimo urto fortuito, Mino gradirebbe delle scuse, ma la mosca non capisce e ricomincia la danza, e se lui prova a disfarsene smanacciando per aria, quella si convince che l’essere sconosciuto e divino danzi insieme a lei. Capita sempre più spesso, nell’autunno disgraziato e perduto, che Mino si arrenda alla danza delle mosche, rassegnandosi ad affrontare insieme a loro il cammino sul viale alberato vicino casa.

Con i pensieri che affogano la testa, Mino si affretta a indossare gli abiti e la giacca mentre è ancora a piedi nudi; chiude il rito della vestizione prendendo dal cassetto del comodino i calzini di cotone e li infila nella stanza da letto buia: ha rinunciato ad aprire la finestra per far cambiare l’aria. Che cosa c’è da cambiare, pensa, entrano solo caldo e mosche. L’autunno si è perso per sempre.
Esce di casa affrontando il cielo lattiginoso, procede spedito verso il viale alberato e si prepara al tango delle mosche seguendo la fila di alberi, tronchi allineati e regolari con chiome ricadenti, sparute foglie gialle nel terreno e un tappeto di bacche color senape che copre il marciapiede. Si appiccicano a Mino come fanno le mosche e formano un unico impasto sotto la suola delle sneakers che cominciano a incollarsi cigolando a ogni passo. Quel suono ricorda a Mino che è arrivato il momento di aumentare il livello di attenzione e non distogliere lo sguardo dalla strada. Gli altri passanti, allora, sono testimoni oculari dell’uomo asciutto e concentrato che cammina a velocità costante senza perdere di vista i suoi piedi, e che con cura millimetrica evita i rifiuti che la tappezzano. É questa, allora, l’altra missione dell’eroico Mino, supereroe ordinario alla ricerca di piccoli compiti quotidiani che lo distraggano dal marcire del tempo.

Campi incolti nella periferia di Bari e in fondo palazzi cittadiniNel quartiere periferico e luminoso, in cui i palazzi spuntano di anno in anno pavoneggiandosi della propria classe energetica, l’arredo urbano è composto da erbacce incolte, le già citate bacche schiacciate e l’immondizia generata dai passanti e da chi nel quartiere ci abita. Ogni giorno, allora, Mino ingaggia una sfida con sé stesso per uscire indenne dal tragitto verso l’ufficio ed evitare i rifiuti che giacciono incolti da mesi e deturpano il paesaggio. Le menti più attente come quella di Mino fanno la differenza perché non è facile memorizzare la posizione di quei rifiuti perenni, ma lui è speciale. A venticinque passi dall’inizio del viale alberato, per esempio, sa che c’è una scatola di cartone di cui non si legge più il destinatario, macchiata di pisciatine di cani e rosicchiata dai topi negli angoli. Mino ricorda ancora il primo giorno in cui l’ha incontrata, era il 7 agosto, e da allora niente è stato capace di smuoverla da quella posizione, nemmeno i giorni magnanimi di maestrale. Poco prima di arrivare all’altezza della piazzetta con il prato asfittico, c’è un pacchetto di sigarette al centro di una congregazione di altri rifiuti: giace schiacciato da piedi e ruote d’auto, ma mantiene i suoi colori brillanti nonostante sia, a memoria di Mino, il rifiuto più antico. In bella vista, la foto di un uomo dalla gola martoriata dal fumo con un buco nero proprio al centro, ricorderà la violenza di quell’immagine per tutta la vita.
Quella di Mino è vera e propria archeologia cittadina, di alcuni rifiuti ha seguito la decomposizione giorno per giorno, con l’arrivo delle muffe, gli insetti e il passaggio dei topi, fino a vedere ogni residuo scomparire, fatto a pezzi da chissà quale altra bestia selvatica. Di altri reperti, invece, può ammirare la pregevole immutabilità nel tempo, come è successo a un paio di bottigliette di plastica che sono in strada da marzo, non è certo della data, di cui è variata solo lievemente la brillantezza del colore per colpa del sole innaturale che invade il cielo ogni giorno con la stessa insistenza. Chissà quante generazioni ci vorranno perché si possa apprezzare il minimo cambiamento in quelle bottiglie, Mino ci pensa sempre quando le supera a circa metà del suo percorso. O forse arriverà un animale qualsiasi, magari le volpi che ogni tanto fanno incursione nei campi incolti vicini, che se le porteranno via per occupare altri terreni ignari e inquinare con democratica rassegnazione.
rifiuti ai piedi di un ulivoIl sito archeologico che Mino guarda con più stupore, però, è quello dietro i cassonetti alla fine del viale, dove un’auto giocattolo a misura di bambino giace riversa sul ciglio nascosto della strada e niente parrebbe smuoverla, nemmeno l’arrivo di altri secchi di vernice, buste e mattoni. La macchina si è adagiata su un olivo ignaro e probabilmente sarà testimone della fine della civiltà, a meno che non costruiscano nuovi palazzi di superba classe energetica, generatori di orgoglio e altri rifiuti. In quel caso probabilmente giacerà nelle fondamenta di cemento a imperitura memoria del genere umano nell’universo.

Non manca molto all’arrivo in ufficio, un paio di isolati e il grumo di piastrelle una volta impilate con ordine sul ciglio della strada davanti all’ultimo cantiere, ora ridotte in frantumi dal passeggio. E proprio mentre si appresta ad affrontare i cocci instabili che gli rallentano la tabella di marcia mattutina da almeno venti giorni, Mino sente un guaito piccolino che richiama la sua attenzione. Non deve nemmeno alzare la testa per individuare l’origine del suono e ferma il passo interdetto, un piede sul marciapiede, l’altro sui cocci. Davanti a lui una donna alta con un cane buffo al guinzaglio che gli va incontro roteando la coda e scuotendo l’intera parte posteriore del suo corpo. Mino è sopraffatto da quella visione inattesa e distoglie l’attenzione dalla routine, dai cocci instabili, dai rifiuti intorno a lui e dimentica persino le mosche che sono ancora lì a fargli la festa; d’istinto si accovaccia a braccia larghe per accogliere il piccolino. La donna alta per un attimo pensa che stia per cantarle una serenata.

«Salve» dice lei quando gli è di fronte, «lo deve scusare, lui vuole per forza salutare tutte le persone che incontra durante le passeggiate». 

Le parole della donna invadono lo spazio fra i due, attraversano il corpo teso di Mino che ormai ha occhi solo per il cane, e proseguono indisturbate fino a disperdersi nell’aria spessa dietro di lui. Mino sembra non aver sentito e non dice nulla, concentrato com’è sul cane che si è tuffato nel suo abbraccio. Si tratta di un evento rarissimo, l’unico caso da mesi di un’amicizia nata all’improvviso, ma già salda ed eterna.

Davanti all’idillio la donna alta non sa bene che fare, cerca di trattenere come può il cane entusiasta, ma sospetta di essere solo un’intrusa davanti all’affetto appena nato. Mino, del resto, continua a ignorarla con trasporto e riemerge dall’abbraccio col cane piccolo solo quando il suo orologio da polso segna le ore otto spaccate con un suono intermittente. É in ritardo sulla tabella di marcia, ma ne è valsa la pena, pensa, e sul viso ha un sorriso così largo che la donna alta dimentica l’imbarazzo e non può fare a meno di pensare che il cane bianco, in fondo, sia un catalizzatore di felicità, una vera e propria vocazione la sua.

«Grazie per averlo accarezzato, le auguro una buona giornata» dice a Mino, ma lui si alza senza guardarla, avvicina la mano alle labbra e, dopo uno schiocco sonoro, lancia un bacio al cane piccolo che ricambia con i colpi di coda festosa.

Per sette lunghissimi minuti Mino è riuscito a non pensare alla routine e all’autunno che si è perso, e riprende a camminare più leggero tra i rifiuti antichi nell’ennesima giornata quieta e appiccicosa della sua vita. Negli stessi sette lunghissimi minuti la donna alta è rimasta impalata al limite della pozza di cocci, incapace di contenere lo stupore per l’assenza di dialogo con l’uomo sconosciuto che oramai è lontano da lei trenta passi. Per sette lunghissimi minuti e tanti altri a seguire in quella mattina tiepida e soleggiata, invece, il cane piccolo ha continuato a essere felice di esistere perché l’autunno, il primo della sua vita, se l’è proprio presa comoda in questo mondo che va in malora.

Photo credits: Alessia Ragno.

È una sfortuna

un cane bianco in movimento in una strada cittadina alla luce dei lampioni.

Un giorno intero dopo l’ultima pioggia, le scie tracciate dalle lumache continuano a brillare nella luce arancio dei lampioni, ramificandosi incontrollate sull’asfalto e sui marciapiedi sconnessi. In quell’intricato percorso argenteo qualcuna non è riuscita a completare il disegno che aveva immaginato e giace schiacciata in una pozza piena di cocci. Quando le hanno cancellate da questa esistenza infelice, un rumore croccante si è sentito netto sopra ogni cosa a sovrastare persino il rombo delle auto in transito. Nessuno dei presenti, però, si è scomposto per quell’accadimento insolito e così il senso di colpa non si è propagato come ci si auspicherebbe dopo così tante perdite, ma si è concentrato investendo una sola malcapitata che passava di là per caso, l’unica persona davvero sovrappensiero e per questo più indifesa.

Lo scrocchiare dei gusci, allora, l’ha colpita mentre si trovava in traiettoria, ma non ci sono state conseguenze immediate, anzi, la donna non si è accorta di nulla, se non di un leggero prurito all’interno dell’orecchio destro, seguito a ruota da quello sinistro; il lieve fastidio ha poi raggiunto la sommità della testa andando in risonanza con la vibrazione dei pensieri già presenti. Il senso di colpa ha attecchito nel movimento fertile di parole e concetti che stava abitando quella mente indaffarata e ha detonato alla prima lumaca schiacciata dalla suola di gomma delle scarpe di lei.

«Maledizione», ha detto a bocca stretta e purtroppo un’altra sfortunata coincidenza ha voluto che fosse proprio quella la formula magica che non doveva pronunciare, perché così il rimorso si è moltiplicato nel corpo all’istante, rimbalzando sulle pareti dello stomaco e facendosi strada nel sangue fino a emergere sulla pelle fresca per irradiarsi dal corpo di lei come un’aura luminescente. L’ironia più grande di questo quadro dipinto dal caso sta nel fatto che l’aura di colpa che si è sviluppata intorno alla donna sia dello stesso identico colore delle scie di chi, fra le lumache, è sopravvissuta.

Una donna luminescente di colpa si aggira, allora, nel quartiere mezzo vivo e mezzo morto della periferia di Bari piena di erbacce, quelle a cui miravano le lumache artiste ancora ubriache di pioggia a distanza di un giorno dall’ultima goccia. Quest’aura ha un peso specifico e un proprio volume, ma la donna non lo sa e crede che la fatica nuova che ha sentito all’improvviso, dopo aver schiacciato quell’unica lumaca e pronunciato la parola magica, sia solamente la stanchezza della giornata, della settimana, del mese e dell’anno intero. Invece il peso della colpa di così tanti gusci scrocchiati logorerà muscoli e nervi della povera malcapitata, la rallenteranno di un millesimo di secondo a ogni passo, scavando nicchie nella materia cerebrale che non saranno mai più riparabili.

Ci vorrà molto tempo perché l’aura di colpa scompaia, ci vorrà ancora più tempo affinché la donna realizzi l’accaduto perché non è facile comprendere che un rumore qualsiasi nella strada della sera possa diventare per lei peso e volume ulteriore da trascinare nel quotidiano. Ma che ci può fare la povera donna contro il potere del caso che l’ha investita in una strada qualsiasi di un quartiere periferico e pieno di erbacce nella Bari odierna.

un cane bianco in movimento in una strada cittadina alla luce dei lampioni.A seguirla con dedizione, qualche passo più indietro, compare il suo cane bianco i cui movimenti appaiono frenetici e scoordinati; non ha aura, ma i suoi contorni sono ugualmente sfumati per il manto mosso dal venticello della sera che lo fa sembrare una nuvola di felicità immotivata. Nel momento della detonazione del senso di colpa a seguito della parola magica pronunciata per una pura casualità, il cane era pochi passi dietro la donna, impegnato ad annusare le già citate erbacce nel mezzo delle quali scorgeva più d’una lumaca stremata dal viaggio, ma giunta sana e salva nella terra promessa. E siccome a lui non interessano i sensi di colpa e le auree argentee involontarie, né la fatica nuova della donna che rallenta a ogni passo, ha spalancato la mandibola per assaggiare la felicità passeggera delle lumache vittoriose. Ha masticato il guscio ancora pieno, ma il sapore in esso contenuto non si è rivelato granché e l’ha risputato storcendo il naso rosato che nella sera sembra del colore della liquirizia.

La donna pesante un corpo e un’aura ha così proseguito il suo cammino verso la fine della strada col passo attento per scongiurare ogni altro incontro tra scarpe e lumache; dietro di lei il cane bianco, imperturbabile, che ha proseguito l’assaggio compulsivo di almeno altri sei gusci umidi, per sincerarsi che il loro sapore non fosse cambiato nel frattempo. Ma nonostante le lumache masticate nessuna responsabilità potrà mai essergli attribuita per il destino della sua compagna umana: la colpa non sceglie, ma t’investe per caso e s’incendia solo se pronunci la parola magica mentre passeggi ignara nella periferia di Bari più trascurata.

É stata davvero una sfortuna, ma a qualcuno dovrà pure toccare ogni tanto.

Foto di Alessia Ragno.

Concerto per Attilio

Prato di un parco con ragazzi e ragazze seduti a parlare

 

Attilio vive solo in un appartamento al piano terra di un edificio rosso e alto. È vicino al parco, dove passa tutto il suo tempo, soprattutto d’estate. Esce la mattina dopo un’abbondante colazione – pane tuffato nel latte -, e va incontro al suo amico edicolante che alza la saracinesca alle sette circa. Compra il giornale, a volte anche “La settimana enigmistica”, e con la sedia pieghevole si posiziona sempre sotto lo stesso albero. All’ora di pranzo torna a casa, mangia pane e pomodoro con olio abbondante, e alle due e mezza riprende la sedia per la pennichella nel parco.
Oggi, però, è una giornata speciale perché nel suo solito posto ci sono camioncini, strumenti, sedie e microfoni. Il giovanotto sudato che lavora sotto il sole lo informa che stasera ci sarà un concerto.
«Ma devo pagare?»
«No è gratis.»
Attilio si illumina.
«Oggi è festa» dice ad alta voce.
Cena con un cornetto gelato comprato al chiosco e conquista, sempre con la fidata sedia personale, un posto d’eccezione al lato destro del palco, attaccato alla transenna.
Alle otto e mezza la musica inizia. Alle prime note Attilio chiude gli occhi e immagina di essere in una grande arena, anzi no, è in un teatro, al Petruzzelli magari. Non ci è mai entrato, ma lo immagina fresco come la brezza delle sere di agosto, con la stessa erba sotto i piedi e molte meno zanzare.
«Proseguiamo il concerto con una fantasia di successi di Ennio Morricone» annuncia il maestro d’orchestra con un leggero affanno.
Attilio non ci pensa un attimo, apre gli occhi e dice a gran voce: «E Nino Rota? Quando suonate Nino Rota?»
Il maestro sorride dal palco, il pubblico applaude divertito, Attilio si sorprende del suo ardire.
«Le prometto che arriva. Ennio Morricone, Piero Piccioni e poi, solo per lei, Nino Rota.»
Attilio si emoziona e applaude forte, il pubblico lo segue e batte di nuovo le mani un po’ per il maestro d’orchestra e un po’ per lui.
Quando arrivano le note di “Otto e mezzo”, Attilio le riconosce e si guarda intorno compiaciuto. Il maestro la sta dedicando a lui, ne è sicuro, e per ringraziarlo si alza dalla sedia e fa una riverenza, poi poggia i gomiti sulla transenna e con le mani segue il ritmo del concerto che gli hanno dedicato battendo il tempo sul metallo.

Concerto notturno: un palco al centro iluminato
Parco Due Giugno in notturna, Bari, 2022.

Foto di Alessia Ragno.

Brava, bis!

un ristorante sugli scogli fotografato al tramonto, con le onde mosse dal maestrale

Quando attraversa la strada in piena curva, una berlina grigia suona il clacson e la manda a quel paese, ma lei non reagisce, anzi, aumenta il passo tirando il braccio della figlia irrigidita per lo spavento. Quando arrivano sul marciapiede corre verso il mare come niente fosse accaduto. C’è maestrale, le onde alte bagnano l’asfalto e la pista ciclabile sbiadita. La pizzeria è poco più avanti e le fa cenno di proseguire, vedranno le onde dopo cena, ma la bambina è già affacciata sul muretto del lungomare.
«Ti bagni così!» grida, e appena finisce di pronunciare la frase l’acqua spumosa s’infrange sugli scogli e ricade schizzandole. Adesso è lei a irrigidirsi perché teme la reazione della figlia, ma non succede nulla, anzi la piccola ride e lei sente i muscoli rilassarsi.
In fila alla cassa per le pizze d’asporto fissano il menu sulla lavagna come se contenesse i segreti del mondo, ma la bambina sa leggere poco e lei, più che altro, ha spento il cervello per ricaricarsi. Fa così quando è triste. Quando arriva il loro turno ordinano due pizze e le sgagliozze, poi lei si siede all’ultimo tavolino rimasto libero, mentre sua figlia sceglie di ballare nel corridoio tra gli altri tavoli. La sorveglia da lontano con le braccia incrociate sul petto, accanto a lei una signora anziana applaude tenendo il tempo immaginario di una musica che non c’è. Scivola sulla sedia curvando la schiena, come se volesse addormentarsi cullata dal maestrale, l’applauso della vecchia e i numeri delle pizze urlati in un microfono dal suono distorto. Altri clienti in attesa le rivolgono domande che non capisce, ma annuisce cortese con gli occhi spenti.
«Numero cinquantasei» grida l’altoparlante, tocca a loro.
Riemerge di soprassalto dal torpore, fa un cenno alla figlia che danza ancora e quando abbassa lo sguardo si rende conto che le sedie sono andate tutte via. Hanno perso il tavolo e ora toccherà mangiare sul muretto.
«Numero CINQUANTASEI!» urlano di nuovo.
«Eccomi» risponde correndo verso il pizzaiolo. Dietro di lei, sua figlia fa un ultimo inchino per salutare il pubblico.
La vecchia signora chiede il bis applaudendo con trasporto.

un ristorante sugli scogli fotografato al tramonto, con le onde mosse dal maestrale
Lungomare di Bari
Foto di Alessia Ragno.

Sequenza

teatro Petruzzelli di bari visto dal finestrino di un autobus

teatro Petruzzelli di bari visto dal finestrino di un autobusUno starnuto fragoroso, poi un secondo più forte. Il tizio che gli passa le casse si ferma e gli chiede nervoso: «Ce d’è, u covìd?». Il ragazzo fa cenno di no con la testa, gli toglie la cassa di mano e la lancia in malo modo alle sue spalle. Il rumore dell’atterraggio è coperto dal motorino che gli sfreccia accanto; chi guida alza un braccio in segno di saluto, lui risponde con un gesto del mento. È il fattorino della macelleria e quando si ferma sembra smonti da cavallo, con l’anca che compie un movimento ampio; si sfila il casco pieno di ammaccature e lo inforca come una borsetta col braccio nudo perché ha tagliato le maniche della camicia. Recupera dal bauletto la busta da consegnare e si lancia, atletico, verso un uomo coi baffi che lo sta già aspettando. Nel ripartire quasi investe l’anziano signore con il berretto del Bari e per il nervoso gli dedica un bestemmione, ma quello non lo ascolta e allinea l’una dopo l’altra le gambe secche e bianche da bermuda precoci, fino a che non emerge su Corso Vittorio Emanuele. Cammina sul bordo esatto dell’ombra dei palazzi, è in ritardo e si tranquillizza solo dieci minuti dopo, alla vista della pensilina col tabellone degli orari e l’autobus che sta arrivando. Scuote una mano per richiamare l’attenzione dell’autista mentre con le gambe accelera vistosamente. «Grazie giovane!» dice col fiato corto quando riesce a salire e si siede con un gran sospiro, spalmando le cosce nude sulla plastica rovente. Nell’autobus c’è un tizio con le gambe da ragno e la pancia prominente che ha assistito alla scena. È di malumore perché suda, si sventola col biglietto grande come il suo pollice, ma la situazione non migliora. Girerà in autobus fino all’ora di pranzo, come fa sempre, ma oggi c’è il più fastidioso degli inconvenienti: i vetri sono coperti dagli adesivi pubblicitari, una pioggia fitta di pallini bianchi gli blocca la visuale. Li detesta, ma quando l’autobus riprende la sua corsa, inizia a contarli per tenersi occupato e si dimentica della strada.

Foto di Alessia Ragno.

Al parco ci chiediamo se siamo felici

uno skater al parco rossani di Bari mentre salta sul bordo di un vascone di cemento

parco rossani Bari, vista del prato e i palazzi sullo sfondoA Bari inaugurano la primavera con nuovi parchi cittadini, ma chi va a vederli per la prima volta indossa ancora il cappotto. Gli unici a sfidare il freddo senza giacche sono gli under 18 che, nel baccano generale, sembrano proprio felici. Calpestano l’erba nuova di zecca, inseguono il sole con le coperte per sdraiarcisi sopra, mentre chi di loro sceglie le panchine lucide e pulite alza al massimo il volume del cellulare sovrastando i pensieri dei passanti. Nel centro esatto del parco alcuni di loro si lanciano a turno su pattini e skate in un vascone di cemento, aggrappandosi solo all’ultimo momento sui bordi grigi e taglienti. C’è una ragazzina con gli occhiali e il caschetto che ignora il pubblico e si lancia senza pensare; ogni volta che scivola dal suo skate striscia gambe e mani sul cemento, ma non se ne preoccupa e si rialza subito.
Davanti all’ingresso principale del parco, un gruppo di over 50 si accalca parlando ad alta voce, le mascherine su labbra e menti, mentre i nasi sono scoperti. A loro non interessano il vascone di cemento, la ragazzina sicura, le coperte o gli altri skater; sono fermi lì a stringere le mascherine alla bocca come se dovessero tenere al sicuro le parole. Chi passa loro vicino intercetta pezzi del discorso, pare che si stiano chiedendo quando toccherà a loro essere felici.
«È il nostro turno adesso» dice a mezza bocca la donna alta che passa accanto a loro in quel momento, ma li supera in fretta e non glielo ripete. Quando arriva nel centro esatto del parco, la donna si ferma davanti al vascone e vede la ragazzina con gli occhiali cadere. Il rumore dello skate che sbatte sul cemento le fa impressione, ma la ragazzina comincia a ridere, sdraiata per terra con le braccia aperte, gli occhi strizzati a fissare il sole.
La donna alta sorride e si chiede quando sarà felice come quella ragazzina, ma se ne pente subito; allora scuote forte la testa per scacciare quel pensiero, rivolge un ultimo sguardo al vascone e va via a passo veloce.
Sa che non è ancora il suo turno, ma aspetterà.

Foto di Alessia Ragno.

La stellina

la sabbia della psiaggia di Pane e Pomodoro Bari e una stellina rosa al centro

la sabbia della psiaggia di Pane e Pomodoro Bari e una stellina rosa al centro «Ma che stai cercando?»
«Pietre colorate.»
Quando la sabbia è tornata, sono riuscita a riconoscere le scarpe che erano passate prima di noi dall’impronta che avevano lasciato in mezzo alle tracce dei gabbiani.
«Hai finito di giocare a CSI?», ma rideva.
«Quasi», ho risposto, e mentre parlavo ho trovato la stellina, il tesoro che cercavo.

Foto di Alessia Ragno.