Piccola fantasia

Un ragazzo e una ragazza guardano foto dei queen appese su un muro per una mostra, Queen a Budapest.

Ha dormito poco lontano dall’area del concerto per unirsi alla fila sin dall’alba, ma il campo in cui ha parcheggiato la vecchia auto del padre è ora circondato da transenne. Piove e il terreno è diventato fango.
«Ma che fate, oh?» grida a due tizi che martellano più avanti.
«Questo è un parcheggio a pagamento adesso.»
«E chi l’ha deciso?»
«Noi. Paga oppure vattene con quella ferraglia.»
Allarga le braccia esasperato: l’auto è bloccata e il prato è già gremito. I cancelli aprono all’una, ma non è sicuro se riuscirà ad arrivare sotto il palco.

Quando si unisce alla fila il fango gli arriva già alle caviglie, riesce a oltrepassare i cancelli d’ingresso sulle note dei gruppi di supporto. Cammina per ore senza fermarsi, il pubblico grida, sono arrivati i Queen. Gli prende una frenesia strana, ma sono tutti incastrati e si sfoga tormentando il biglietto nella tasca. Dal palco la musica si ferma più volte, in fondo si stanno picchiando, ma lui cammina sporco di fango fino alle ginocchia anche se ha smesso di piovere. Due tizi ubriachi spaccano bottiglie e la sicurezza non riesce a raggiungerli; schiva cocci di vetro e spintoni, supera un tizio con la videocamera e un gruppo di ragazze ubriache. La borsa che ha a tracolla s’è riempita d’acqua, il biglietto è una poltiglia, ma quando il concerto riprende è a buon punto, può ancora farcela.

Su Love of my life è quasi vicino, ritrova il tizio con la videocamera e gli passa accanto sorridendo, ma quello non s’accorge nemmeno di lui, è troppo concentrato a mantenere l’equilibrio. Il concerto s’interrompe ancora, dall’altra parte del campo urlano, ma lui prosegue testardo e guadagna altre posizioni. Arrivato al palco, a un metro e molte teste da lui, si ferma soddisfatto e distrutto. Un uomo dietro lo quinte lo fotografa, lui non se ne accorge.

Nel 2022 la sua espressione seria è stampata su carta fotografica, in basso a destra c’è un bollino che ne certifica l’originalità. Si vedono la sua giacca blu, la maglietta celeste, i capelli scompigliati e lo sguardo concentrato e stanco. In prospettiva sembra che Freddie Mercury canti solo per lui.

Concerto per Attilio

Prato di un parco con ragazzi e ragazze seduti a parlare

 

Attilio vive solo in un appartamento al piano terra di un edificio rosso e alto. È vicino al parco, dove passa tutto il suo tempo, soprattutto d’estate. Esce la mattina dopo un’abbondante colazione – pane tuffato nel latte -, e va incontro al suo amico edicolante che alza la saracinesca alle sette circa. Compra il giornale, a volte anche “La settimana enigmistica”, e con la sedia pieghevole si posiziona sempre sotto lo stesso albero. All’ora di pranzo torna a casa, mangia pane e pomodoro con olio abbondante, e alle due e mezza riprende la sedia per la pennichella nel parco.
Oggi, però, è una giornata speciale perché nel suo solito posto ci sono camioncini, strumenti, sedie e microfoni. Il giovanotto sudato che lavora sotto il sole lo informa che stasera ci sarà un concerto.
«Ma devo pagare?»
«No è gratis.»
Attilio si illumina.
«Oggi è festa» dice ad alta voce.
Cena con un cornetto gelato comprato al chiosco e conquista, sempre con la fidata sedia personale, un posto d’eccezione al lato destro del palco, attaccato alla transenna.
Alle otto e mezza la musica inizia. Alle prime note Attilio chiude gli occhi e immagina di essere in una grande arena, anzi no, è in un teatro, al Petruzzelli magari. Non ci è mai entrato, ma lo immagina fresco come la brezza delle sere di agosto, con la stessa erba sotto i piedi e molte meno zanzare.
«Proseguiamo il concerto con una fantasia di successi di Ennio Morricone» annuncia il maestro d’orchestra con un leggero affanno.
Attilio non ci pensa un attimo, apre gli occhi e dice a gran voce: «E Nino Rota? Quando suonate Nino Rota?»
Il maestro sorride dal palco, il pubblico applaude divertito, Attilio si sorprende del suo ardire.
«Le prometto che arriva. Ennio Morricone, Piero Piccioni e poi, solo per lei, Nino Rota.»
Attilio si emoziona e applaude forte, il pubblico lo segue e batte di nuovo le mani un po’ per il maestro d’orchestra e un po’ per lui.
Quando arrivano le note di “Otto e mezzo”, Attilio le riconosce e si guarda intorno compiaciuto. Il maestro la sta dedicando a lui, ne è sicuro, e per ringraziarlo si alza dalla sedia e fa una riverenza, poi poggia i gomiti sulla transenna e con le mani segue il ritmo del concerto che gli hanno dedicato battendo il tempo sul metallo.

Concerto notturno: un palco al centro iluminato
Parco Due Giugno in notturna, Bari, 2022.

Foto di Alessia Ragno.

Brava, bis!

un ristorante sugli scogli fotografato al tramonto, con le onde mosse dal maestrale

Quando attraversa la strada in piena curva, una berlina grigia suona il clacson e la manda a quel paese, ma lei non reagisce, anzi, aumenta il passo tirando il braccio della figlia irrigidita per lo spavento. Quando arrivano sul marciapiede corre verso il mare come niente fosse accaduto. C’è maestrale, le onde alte bagnano l’asfalto e la pista ciclabile sbiadita. La pizzeria è poco più avanti e le fa cenno di proseguire, vedranno le onde dopo cena, ma la bambina è già affacciata sul muretto del lungomare.
«Ti bagni così!» grida, e appena finisce di pronunciare la frase l’acqua spumosa s’infrange sugli scogli e ricade schizzandole. Adesso è lei a irrigidirsi perché teme la reazione della figlia, ma non succede nulla, anzi la piccola ride e lei sente i muscoli rilassarsi.
In fila alla cassa per le pizze d’asporto fissano il menu sulla lavagna come se contenesse i segreti del mondo, ma la bambina sa leggere poco e lei, più che altro, ha spento il cervello per ricaricarsi. Fa così quando è triste. Quando arriva il loro turno ordinano due pizze e le sgagliozze, poi lei si siede all’ultimo tavolino rimasto libero, mentre sua figlia sceglie di ballare nel corridoio tra gli altri tavoli. La sorveglia da lontano con le braccia incrociate sul petto, accanto a lei una signora anziana applaude tenendo il tempo immaginario di una musica che non c’è. Scivola sulla sedia curvando la schiena, come se volesse addormentarsi cullata dal maestrale, l’applauso della vecchia e i numeri delle pizze urlati in un microfono dal suono distorto. Altri clienti in attesa le rivolgono domande che non capisce, ma annuisce cortese con gli occhi spenti.
«Numero cinquantasei» grida l’altoparlante, tocca a loro.
Riemerge di soprassalto dal torpore, fa un cenno alla figlia che danza ancora e quando abbassa lo sguardo si rende conto che le sedie sono andate tutte via. Hanno perso il tavolo e ora toccherà mangiare sul muretto.
«Numero CINQUANTASEI!» urlano di nuovo.
«Eccomi» risponde correndo verso il pizzaiolo. Dietro di lei, sua figlia fa un ultimo inchino per salutare il pubblico.
La vecchia signora chiede il bis applaudendo con trasporto.

un ristorante sugli scogli fotografato al tramonto, con le onde mosse dal maestrale
Lungomare di Bari
Foto di Alessia Ragno.

Il maestrale è troppo forte

polignano a mare, vista del mare dal ponte della città con a destra e sinistra le case e di fronte la spiaggia e il mare

vista da un lungomare al tramonto, il mare sullo sfondo e il muretto e una ringhiera in primo pianoParlano sentendosi a malapena nel maestrale che scuote panni stesi e luminarie.
«C’è la festa del patrono la settimana prossima?»
«Eh? Peppì che hai detto?»
«La festa patronale!»
«Sì, sono le luminarie della festa.»
«Dici che cadono se il vento continua così?» urla Peppino.
«No, ma quando mai» risponde poggiando una mano a uno dei pali di legno dipinti di bianco. «So’ solidi Peppì, questa è un’arte antica, non si piega al maestrale», ma si spostano entrambi di qualche passo, pensando all’unisono che non si sa mai.
Percorrono una porzione di lungomare meno trafficata del solito, i turisti nei dehor dei ristoranti sembrano pesci in un acquario.
«Prima qua c’era il negozio di Ciccio, te lo ricordi?»
«Son tutti ristoranti qua.»
«Sì ma hai capito? Il negozio di Ciccio!»
«Peppì ho capito, il pescivendolo. Non ci sta più mo’.»
«Eh, venivo qua con mio figlio» e sospira senza che nessuno lo senta.
Quando riemergono nella strada principale il rumore del vento è coperto da risate e bottiglie che tintinnano. Rinunciano a parlarsi perché si sono detti già tutto. Peppino strofina gli occhiali ruvidi di salsedine sulla polo stirata, ma le lenti, invece di pulirsi, si riempiono di aloni circolari a cui sembra non esserci rimedio. Strisciano le ciabatte sulle chianche lisce, è il loro modo di accarezzare strade che gli erano care, poi accelerano il passo per arrivare sul ponte che sta appiccicato alla città vecchia. Il vento non molla la presa e continua a stordirli. Una turista con la gonna a fiori che sventola come una bandiera chiede a gesti se possono scattarle una foto. Solo Peppino annuisce cortese, ma le foto che fa sono scure e sfocate perché il maestrale lo disturba. La turista sembra contenta e corre via pronunciando parole incomprensibili.
«Ma tu hai sentito che ha detto?»
«No, sta il vento.»
Peppino è deluso.
Quando si siedono l’uno accanto all’altro nel treruote ammaccato, Peppino lo lascia guidare verso casa con le mani che tremano, lo sterzo scosso dallo stesso vento che agitava le luminarie.
«Te la senti di guidare? Non è che il vento è troppo forte?», la voce coperta dal motore.
«Che hai detto Peppì? Non sento!»

Foto di Alessia Ragno.

Sequenza

teatro Petruzzelli di bari visto dal finestrino di un autobus

teatro Petruzzelli di bari visto dal finestrino di un autobusUno starnuto fragoroso, poi un secondo più forte. Il tizio che gli passa le casse si ferma e gli chiede nervoso: «Ce d’è, u covìd?». Il ragazzo fa cenno di no con la testa, gli toglie la cassa di mano e la lancia in malo modo alle sue spalle. Il rumore dell’atterraggio è coperto dal motorino che gli sfreccia accanto; chi guida alza un braccio in segno di saluto, lui risponde con un gesto del mento. È il fattorino della macelleria e quando si ferma sembra smonti da cavallo, con l’anca che compie un movimento ampio; si sfila il casco pieno di ammaccature e lo inforca come una borsetta col braccio nudo perché ha tagliato le maniche della camicia. Recupera dal bauletto la busta da consegnare e si lancia, atletico, verso un uomo coi baffi che lo sta già aspettando. Nel ripartire quasi investe l’anziano signore con il berretto del Bari e per il nervoso gli dedica un bestemmione, ma quello non lo ascolta e allinea l’una dopo l’altra le gambe secche e bianche da bermuda precoci, fino a che non emerge su Corso Vittorio Emanuele. Cammina sul bordo esatto dell’ombra dei palazzi, è in ritardo e si tranquillizza solo dieci minuti dopo, alla vista della pensilina col tabellone degli orari e l’autobus che sta arrivando. Scuote una mano per richiamare l’attenzione dell’autista mentre con le gambe accelera vistosamente. «Grazie giovane!» dice col fiato corto quando riesce a salire e si siede con un gran sospiro, spalmando le cosce nude sulla plastica rovente. Nell’autobus c’è un tizio con le gambe da ragno e la pancia prominente che ha assistito alla scena. È di malumore perché suda, si sventola col biglietto grande come il suo pollice, ma la situazione non migliora. Girerà in autobus fino all’ora di pranzo, come fa sempre, ma oggi c’è il più fastidioso degli inconvenienti: i vetri sono coperti dagli adesivi pubblicitari, una pioggia fitta di pallini bianchi gli blocca la visuale. Li detesta, ma quando l’autobus riprende la sua corsa, inizia a contarli per tenersi occupato e si dimentica della strada.

Foto di Alessia Ragno.

Al parco ci chiediamo se siamo felici

uno skater al parco rossani di Bari mentre salta sul bordo di un vascone di cemento

parco rossani Bari, vista del prato e i palazzi sullo sfondoA Bari inaugurano la primavera con nuovi parchi cittadini, ma chi va a vederli per la prima volta indossa ancora il cappotto. Gli unici a sfidare il freddo senza giacche sono gli under 18 che, nel baccano generale, sembrano proprio felici. Calpestano l’erba nuova di zecca, inseguono il sole con le coperte per sdraiarcisi sopra, mentre chi di loro sceglie le panchine lucide e pulite alza al massimo il volume del cellulare sovrastando i pensieri dei passanti. Nel centro esatto del parco alcuni di loro si lanciano a turno su pattini e skate in un vascone di cemento, aggrappandosi solo all’ultimo momento sui bordi grigi e taglienti. C’è una ragazzina con gli occhiali e il caschetto che ignora il pubblico e si lancia senza pensare; ogni volta che scivola dal suo skate striscia gambe e mani sul cemento, ma non se ne preoccupa e si rialza subito.
Davanti all’ingresso principale del parco, un gruppo di over 50 si accalca parlando ad alta voce, le mascherine su labbra e menti, mentre i nasi sono scoperti. A loro non interessano il vascone di cemento, la ragazzina sicura, le coperte o gli altri skater; sono fermi lì a stringere le mascherine alla bocca come se dovessero tenere al sicuro le parole. Chi passa loro vicino intercetta pezzi del discorso, pare che si stiano chiedendo quando toccherà a loro essere felici.
«È il nostro turno adesso» dice a mezza bocca la donna alta che passa accanto a loro in quel momento, ma li supera in fretta e non glielo ripete. Quando arriva nel centro esatto del parco, la donna si ferma davanti al vascone e vede la ragazzina con gli occhiali cadere. Il rumore dello skate che sbatte sul cemento le fa impressione, ma la ragazzina comincia a ridere, sdraiata per terra con le braccia aperte, gli occhi strizzati a fissare il sole.
La donna alta sorride e si chiede quando sarà felice come quella ragazzina, ma se ne pente subito; allora scuote forte la testa per scacciare quel pensiero, rivolge un ultimo sguardo al vascone e va via a passo veloce.
Sa che non è ancora il suo turno, ma aspetterà.

Foto di Alessia Ragno.