La favola horror dei millennial secondo Sarah Rose Etter

Il romanzo Qui non c'è niente per te, ricordi?. In copertina il ponte di San Francisco

In un’intervista rilasciata in occasione della pubblicazione del suo secondo romanzo Ripe (in Italia Qui non c’è niente per te, ricordi? edito da La Nuova Frontiera nella traduzione di Lorenzo Medici), Sarah Rose Etter spiega come per lei l’incipit, o meglio ancora la frase iniziale, sia fondamentale per definire il tono di una storia, nonché responsabile del carico emotivo da distribuire nelle pagine a seguire. Nel caso di questo romanzo un uomo si dà fuoco in una strada periferica di San Francisco; non c’è modo di tornare indietro dopo un impatto del genere che dà il via all’escalation di dolore della protagonista e voce narrante.

Il romanzo Qui non c'è niente per te, ricordi?. In copertina il ponte di San FranciscoLei si chiama Cassie è una dipendente di una grossa azienda tecnologica della Silicon Valley, ritratta, nell’incipit, mentre si confonde nella folla del ritorno a casa di quelli che lei chiama Credenti, che in questo caso nulla hanno a che fare con la religione: il loro unico credo è il profitto. Nella sua disperazione fanno incursione l’uomo e il suo gesto estremo, e l’angoscia di Cassie monta e assume le sembianze di un placido e minaccioso buco nero nel senso puramente astronomico del termine, che fluttua sopra la sua testa e cambia in dimensione a seconda dell’umore di lei. Cassie e il buco nero sono un sistema binario, per mutuare ancora un termine dell’astrofisica, due entità inscindibili attratte dalla forza gravitazionale che le tiene insieme soprattutto nel dolore. È questo il guizzo narrativo più riuscito di un romanzo non completamente nuovo, ma comunque sincero e contemporaneo.
Cassie spera di confondersi tra i Credenti anche grazie alla droga che le consente di mantenere i ritmi richiesti dal lavoro nella culla del tech occidentale, ambiente tossico privo di scrupoli e di umanità. Ed è la tossicità della office culture uno dei nodi della vicenda che mostra il sistema capitalista statunitense al suo peggio. Qui non c’è niente per te, ricordi? segue la progressiva perdita di umanità di Cassie e delle pochissime persone che le gravitano intorno, perché l’isolamento di una grande città è l’altra piaga sociale di questa parte di Stati Uniti. Tra droga, relazioni superficiali con amiche e amanti, e abusi dei capi sul posto di lavoro, Cassie e il suo buco nero navigano le giornate col rimpianto di ciò che hanno lasciato per trasferirsi a San Francisco e di ciò che potrebbe essere in un futuro che sfugge inghiottito dagli albori della pandemia di Covid, il cambiamento climatico, i disordini sociali in città.

Ripe è il secondo romanzo di Etter, definita dal magazine statunitense Nylon «una profeta per le ragazze tristi», nuova esponente della cosiddetta sad girl lit, la letteratura delle ragazze tristi, che racconta proprio la desolazione di millennial e gen z in un mondo divorato dal sistema capitalista mentre finge di sostenerlo. Argomenti toccati ovviamente, anche dall’altra profeta millennial, Sally Rooney, da Ottessa Mosfegh, ma anche da esordi di pregio La gabbia dei conigli di Tess Gunty, ma tutto riporta alla sad girl lit originaria, ovvero le grandi aspirazioni di Etter: Sylvia Plath e Joan Didion. Due scrittrici che, è la stessa Etter a dirlo, non hanno mai avuto paura di raccontare la tristezza delle donne di cui hanno scritto senza mai ricorrere all’espediente letterario della redenzione.
Cassie, allora, a 33 anni e un anno di Silicon Valley alle spalle si mantiene a galla nel mare che è diventato la sua tristezza «aspettando che il senso della vita mi si schiuda davanti».

I non Credenti come me sono qui nel tentativo di issarsi […] negli strati più rarefatti del benessere. Siamo venuti qui per reinventarci, con dietro famiglie che ci spingono ad avanzare, mani sulla schiena che ci esortano ad andare ad Ovest, a trovare l’oro. 

Ma ad aspettarci, qui ad Ovest, ci sono interminabili ore di pendolarismo, un susseguirsi di email e notifiche, progetti segretissimi e scadenze impossibili. Non importa se sei un Credente oppure no: la pressione atmosferica di San Francisco ti cambia, ti plasma, fa di te un nuovo tipo di lavoratore. Mi ha cambiata.

In questa vita, che a un’analisi più attenta è solo sopravvivenza, Cassie cataloga dettagli scientifici sul suo buco nero personale e i ricordi mai felici nei frequenti stati dissociativi innescati dalla sofferenza mentale, il tutto per dare a sé stessa l’illusione che qualcosa si possa davvero controllare. Il paradosso è che il buco nero è l’unica entità ad avere compassione di lei fin da bambina, cresciuta da una madre invalidante e aggressiva e un padre emotivamente distante. Fugge allora dalla famiglia, ma tutto ciò che trova è un sistema produttivo esasperato, un marketing bugiardo e standard disumani, il pozzo senza fondo del sistema occidentale che sopprime la dimensione umana della vita.
Etter narra con perizia, e, unico difetto, una leggera ripetitività, la costruzione dell’ansia di Cassie e scrive la favola horror della generazione millennial che si è preparata per un futuro che non è mai arrivato come glielo hanno raccontato e tutto ciò che è rimasto e ridotto in macerie. In questo Etter centra il segno: l’ingresso nella vita adulta è traumatico e reso buio da un buco nero che si allarga a dismisura.

Non è sempre così che inizia l’età adulta? Sei convinta di diventare qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo. All’inizio, nuoti con veemenza contro la corrente, il corpo che si sforza finché i muscoli non cedono, finché non ce la fai più a spingere, finché non smetti di lottare e galleggi, lasciando che l’acqua ti riporti a riva, dove il resto del mondo è già in ufficio, a sgobbare sotto il candore di una luce perennemente diurna e produttiva.

Ancora più interessante la sua struttura che si svela nella lettura e segue gli strati della melagrana ritratta nelle prime pagine, più evidente nell’edizione statunitense: dall’epicarpo di Cassie, ovvero il suo lavoro, il ruolo nella società e nella famiglia di origine, si viaggia verso il suo io più profondo fino al cuore, dove il dolore risiede. Un romanzo concentrico che trova nel finale la sua realizzazione ottimale, con delicatezza e un cenno al surreale che lasciano, a chi legge, la libertà di interpretare in autonomia il futuro di Cassie.

Bye Bye vitamine di Rachel Khong

copertina del romanzo Bye Bye vitamine: fondo rosa e in primo piano un paio di scarpe appese a un filo dell'alta tensione, scarpe che contengono fiori rosa.

In Bye Bye Vitamine di Rachel Khong, edito da NN editore nella traduzione si Silvia Rota Sperti, c’è Ruth che torna a casa nella Vigilia di Natale per rimanerci un anno – o almeno così immagina – perché hanno bisogno di lei: il padre mostra i primi segni della malattia neurodegenerativa che gli è stata diagnosticata, l’Alzheimer, e la sua storia d’amore con Joel è finita, non ha più senso rimanere a San Francisco. Bye Bye Vitamine, allora, è il diario dello smarrimento dopo la fine di una storia, dell’accettazione della malattia di un padre e della rassegna inevitabile di tutti i ricordi, gli errori e gli episodi del passato.
Le vitamine del titolo fanno parte di quei piccoli gesti che si mettono in atto per respingere il dolore. Alla diagnosi di Alzheimer la madre vieta l’alluminio, si ossessiona con centrifugati e cibo salutare e butta giù compresse di B-12 e succo di sedano. Si reagisce così al dolore e alla paura, prendendo le decisioni più inaspettate e folli, costruendo nuove routine che si crede salvino dal gorgo della tristezza, ma che poi finiscono abbandonate poco dopo aver cominciato. E se non ci fosse un piglio comico in questo romanzo, sarebbe anche una scelta struggente: una patetica, eppure profondissima, necessità di riparare la vita con piccoli cerotti colorati anche se hai un male cane perché ti sei tagliato con la carta, ma almeno i disegni dei cerotti distraggono un poco e fanno sorridere.

Con una scrittura veloce e istintiva, che segue di fatto i pensieri e le associazioni mentali del personaggio protagonista, Rachel Khong costruisce un romanzo che è un po’ memoir e un po’ autoanalisi.

Copertina anglosassone del romanzo Bye Bye Vitamine, scritta nera su fondo di silhouette di limoni colorati di fucsia, giallo e arancione.Come si elabora il declino, figurato e metaforico, di un genitore? Come si convive con la sua malattia, il passato imperfetto e l’urgenza di stargli lontana perché la vicinanza porta solo dolore?
C’è una rassegnazione diffusa nella prima metà di Bye Bye Vitamine, che Ruth combatte con una vecchia amica, i ricordi, il libretto rosso in cui il padre annotava i suoi pensieri ed episodi di quando era una bambina, le rinunce davanti ai rimedi curiosi della madre e i tentativi di riportare il fratello Linus a casa. Il primo tema portante della narrazione è proprio in questa rassegnazione: niente cambia davvero, soprattutto una diagnosi feroce, ma ci si prova lo stesso anche se la vita è “solo” un lungo tentativo, più o meno convinto, di tenere tutto insieme. Ruth lo fa bevendo con l’amica di sempre, ma anche intrecciando nuovi rapporti e regalando, qua e là, notizie totalmente scollegate dal contesto, eppure significative. Si legge del «tizio» che ha inventato i tergicristalli, del signor Alzheimer, persino dei pistacchi che sono la frutta secca meno calorica. E a che serve tutto questo? A nulla sembrerebbe, ma sarebbe un errore di valutazione. È anche con queste nozioni che si va avanti.

Nella seconda metà del romanzo la situazione cambia. La madre di Ruth si stufa persino dei rimedi temporanei, rinuncia al divieto dell’alluminio, alle vitamine, smette di cucinare, lavora e quando torna a casa si chiude nella sua stanza. Ruth vorrebbe dirle, nella sua maniera goffa e piena di aneddoti, che la malattia del padre non è una loro colpa, ma non è così facile. In qualche modo, però, si mette nuovamente in moto l’elaborazione emotiva degli avvenimenti degli ultimi mesi e da confusione e paura emergono i cocci di una vita precaria da rimettere insieme, con un nuovo senso. Rachel Khong, allora, fresca e diretta, porta avanti una analisi del tutto personale dei rapporti umani tipica degli autori di questa nuova letteratura ( Sally Rooney, Lisa Halliday, ecc.) delle donne millennial: profonda, drammatica, ma non priva di soluzioni. E questo topos non adombra in nessun modo il rapporto viscerale con il proprio io, su cui Ruth è talmente concentrata da dimenticare persino di mangiare. E per quanto la felicità di Ruth sia inevitabilmente calibrata sugli alti e bassi di questo padre imperfetto che si sta perdendo, e per quanto sia irresistibile la voglia di fare bilanci della propria vita e di quelle degli altri, a giugno scrive che va quasi meglio, pur nel continuo riaffiorare di ricordi, rimpianti, errori, insomma, della vita così com’è. E questa è la conquista del significato più profondo di un’esistenza, dettaglio che emerge evidente anche nell’analisi della traduttrice, Silvia Rota Sperti, in coda al romanzo:

Bye Bye Vitamine è una lezione su come sia importante vivere il presente spegnendo il resto, anche solo per pochi attimi.